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Racconto n° 2887
Autore: Nescitgalatea Altri racconti di Nescitgalatea
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Presenze
Forse dormi. L'aria del pomeriggio si appoggia alla pelle. Nebbia che scosto a fatica dai miei respiri e mi lascia sapori in bocca. Come le tue labbra aspre, frutto di un desiderio ancora da violare. Ascolto il sospetto di una tregua agganciata alle mie voglie e non mi spengo.
Ti intuisco, che del viaggio sembra un inizio; l'aria ancora s'accosta e sa di cose buone, di un pensiero sottratto alla ragione che non mi stanco di pensare. La tua pelle sotto la mia, asciutta, trova una via di fuga nell'annaspare quieto fra le onde di un mare imbronciato o quel gesto sfrontato, del mio dito che si appoggia non a te.
La fronte spaziosa trafigge questo cuscino. Gonfio, che non ha paura di quello che sto pensando. Io neppure. E oso. Inizio a solcarmi senza pensare alla fine lenita dal sole, che filtra le voci della strada ignare di me, di te, di ciò che accadrà.
Infilo un gesto. E non è un caso. Lo infilo sotto il braccio stanco che profuma di te. Lo capisco perché voglio annusarlo, nutrirmi del tuo odore profondo e carnoso; una spugna che rilascia lenta il suo capolavoro sopra di me. E mi faccio ara e ti prendo addosso. Ed ora che gioco con il tuo corpo come fosse il mio ti senti e apri verso il soffitto il tuo dire. Mi piaci quando parli, se fai il verso del gufo o della gazzella, se scommetti sul mio sentirti acqua o simbolo, perno dal quale aggredire il mondo. Subisci il mio lambirti che esagera e rifrange sul tuo petto, s'alza e s'abbassa perchè lo sento fra le scapole, mentre striscia dal collo fino alle mie cosce poi risale affranto che quel tempo sia già passato. Io non giro la clessidra, fra le dita stringo tutto il mio esistere che sale.
Sale per quello che regali alla mia lingua, avviata a ogni tua profondità, arco che s'inarca e poi incurva a razziare il bottino che lasci indifeso su questo talamo che sta cercando le ali. E tu riscendi, discendi, t'insinui nell'aria perfetta che divide la pelle dalla pelle, strumento gotico a sesto acuto che rimbomba quando entro, ed entri, nella carne che sa di sangue e di miele, che cola e che raccolgo, e raccogli, in questo silenzio curvato dalle tue domande e dalle mani che si aderiscono al soffitto, grate di questa morte d'ambra che si tinge di un pallore oscuro quando mi avanzo in te. Spingo e prendo, lascio e afferro ogni battito a tempo, la sequenza distinta del verbo che si fa traccia e poi cicatrice che non voglio perdere.
Ti perdo fra le mie cose, i segreti custoditi nel viaggio perché questo potesse avvenire, racchiusi in ogni se che ho lasciato nelle cose della vita. Per questo non hai avversari né inibizioni che la mia voglia possa opporre al tuo spingerti nell'oltre che ho sempre immaginato. E sono corpo e sostanza e ti fai carne e pensiero mentre sbatto il mio ricordo oltre il muro, nella siepe che tra le tue gambe s'è adornata e s'incastra con la mia fortuna di sentirti sopra e sotto, nel lato di ogni me, accanto al destino che si prepara al compimento. Respiro e frastuono, la mia voce si alza, impreca; bestemmio le mani e ogni parte del mio corpo che non ha il tuo contatto, prego il luogo di dio dove fermarmi per non respirare più, tu folla delle mie parole oscene divieni traboccante, immondo essere che si spuma e delira nell'estasi delle mani confuse ai piedi, dello stomaco che è acqua e sete, della gola impetuosa d'accogliere e inabissare il tuo profumo, della schiena che danza nell'orgia del non movimento.
Ti lego e ti leghi, violento e immoto il corpo reagisce e spezza catene e confini, s'inalbera come la vela sotto il grondare del pianto, il cielo non ha pietà per noi che non ne abbiamo chiesta e schianta sopra l'ultimo senso. L'attimo in cui il respiro non vive e il randagio spiraglio che ho indovinato ti divora, pezzo a pezzo, gustando delle fibre il succo, del tuo piangere energia dalle labbra che pregano una fuga che non concedo.
Ti chiedo ancora, come corpo che non muore, come fosse un sogno, come sigillo di una utopia che voglio credere realtà.
Ti chiedo di esistere, di essere, di sostare in questo luogo che non ha ragione e non sente rottura, nessun fragore come il vuoto che ingoia le ore che mi esiliano te.

Nescitgalatea

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