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Racconto n° 3949
Autore: Caliban Altri racconti di Caliban
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Senza Rete...
Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno,
giuro che lo farò, e oltre l'azzurro della tenda nell'azzurro io volerò.

La voce di De Gregori risuonò nella sua mente, dolce, calda e morbida come una coperta di cachemire in una notte invernale. La mente umana è qualcosa di così infinitamente prodigioso, consente davvero di evadere la realtà rifugiandosi in alieni, unici e indissolubili mondi. Così è decisamente più reale il suo correre lungo un infinito verde prato in discesa. L'aria fresca sul viso, sottili fili aguzzi d'erba nuova che solleticano e pungono le delicate piante dei piedi. L'odore della campagna umida di rugiada primaverile.
I grugniti animaleschi di Fetore non possono cancellare la musica nelle sue orecchie. Non ha mai voluto imparare i nomi di medici, infermieri e inservienti, ognuno di loro però ha un nome dell'anima nella sua mente, qualcosa di indelebile. Quello il cui duro, piccolo e prepotente cazzo si sta facendo strada incurante dentro di lei è da sempre Fetore. Il Nome, nomen omen, le balzò immediato tra le labbra, causa l'odore acre di disinfettante e ammoniaca che emanavano le sue sottili, rudi mani cattive, mentre la spingeva nella sua futura stanza insieme a Orrore.
Orrore era l'altro inserviente notturno, un volto che sarebbe stato perfetto per il peggior Dario Argento. Non aveva ancora deciso chi odiava di più tra i due, ma avrebbe così volentieri sparso in un fosso i resti dei loro corpi.
Finalmente finì. Venne dentro di lei con un grugnito più forte e lungo, abbandonando per diversi lunghissimi attimi il suo peso sul suo esile torace, facendole quasi mancare il respiro. Dopo un tempo che le parve infinito, durante il quale riuscì a valicare di corsa la verde valle e risalire lungo l'opposta collina, finalmente si scostò e uscì da dentro di lei. Il suo viso pallido, gli occhi azzurri, bellissimi, eppure così vuoti dentro la fissarono per qualche istante. Un sorriso odioso percorse le sue labbra e la sua lingua le solcò il volto, lenta, dal mento alla fronte, passando su labbra e occhi, che lei serrò forti.
Fetore si alzò dal lettino, sollevò le mutande e i calzoni e li riabbottonò rapidamente. Quindi l'asciugò frettoloso tra le gambe con uno strofinaccio che prese dalla tasca del camice. Riabbassò la bianca, ruvida camicia da notte lungo le sottili, candide, delicate gambe, poi alzò la coperta fin sotto il suo mento. Una controllata alle cinghie di cuoio che le stringevano i polsi al letto e uscì dalla stanza, richiudendo la porta a chiave.
La luce finalmente si spense.
Erano più di due mesi ormai che veniva legata di notte. Per evitare che continuasse ad auto infliggersi dolore, disse così lo psichiatra. In realtà era a lui che aveva voluto infliggerlo, cercando di bucarlo con la matita. Eppure Hannibal al cinema c'era riuscito, lei aveva solo fatto un goffo tentativo prima che le sue mani la stringessero e la strappassero dalle sue piccole dita. Da allora Orrore e Fetore venivano praticamente ogni notte.

E con le mani amore, per le mani ti prenderò
e senza dire parole nel mio cuore ti porterò...
e non avrò paura se non sarò come bella come dici tu
ma voleremo in cielo in carne ed ossa, non torneremo più...

Un tempo aveva adorato il sesso. Perdersi nella sensuale carnalità, coinvolgere ogni senso nella continua scoperta di sè attraverso occhi, mani, bocca e corpo di chi le faceva scattare una scintilla di rivelazione. Aveva sempre pensato che facendone un peccato, il Cristianesimo avesse fatto molto per il sesso.
Ogni tanto frammenti dei loro ultimi incontri le balzavano agli occhi, come flash di inusitata potenza, ma non riusciva mai a trattenerli a lungo, evaporavano rapidi come bolle di champagne lungo il calice di cristallo di un flute.
Era lui che le aveva fatto scoprire innumerevoli canzoni e autori, nuova musica, nuovi pensieri ad aggiungersi al rock, metal, hip hop che avevano sempre scandito i suoi ritmi. Le aveva spalancato ampie porte verso nuovi mondi, prima appena intravisti. Nuovi suoni, odori, sapori che almeno per un po' avevano alleviato la rapida discesa nell'autodistruzione.
Non criticava mai, non pretendeva di insegnare altro che il piacere della vita e mostrare se stesso, intimamente. Era penetrato in modo quasi insondabile tra le pieghe dei suoi pensieri, passioni e segreti desideri. Aveva navigato sulle onde della sua apparente follia, della sua sregolatezza come un leviatano immutabile. Era stato il suo Moby Dick, mentre lei come un'Achab impazzita lo aveva prima scoperto, poi stuzzicato, desiderato, inseguito, affascinato arpionato e forse infine ferito mortalmente.
Ricordava le sensazioni, le sue labbra su di sè, la sua lingua, che adorava solleticarla ovunque, con una costanza e intensità che la lasciava sempre attonita, e il suo modo infinito, famelico e insieme goloso di amarla continuamente, come se non potesse mai saziare totalmente la sua sete di lei. Invece il volto, la voce erano ormai avvolti nella nebbia del caos che turbinava nei suoi pensieri. Eppure non era passato nemmeno un anno.

Quando la donna cannone d'oro e d'argento diventerà,
senza passare dalla stazione l'ultimo treno prenderà.

Come ogni notte giunse infine l'alba. I primi raggi del sole si insinuarono attraverso il vetro smerigliato dell'alta finestrella, iniziando ad accarezzarle la mano destra. Risalirono poi lenti lungo il braccio fino a baciarle il volto diafano, le sottili labbra rosa, gli occhi verdi e i lunghi neri capelli sparsi sul cuscino bianco come schizzi d'inchiostro di un folle artista.
Ogni giorno aveva una sua consolidata routine, il medico, l'eventuale flebo, la costringevano come sempre a mangiare con minacce o blandizie, le pastiglie e finalmente un paio d'ore nel giardino, controllata a vista. Almeno poteva sedersi sotto la grande quercia e assaporare il profumo della primavera.
Come sempre Cucù si sarebbe avvicinato, timido, guardandola prima a lungo da lontano.
Cucù era un contrasto vivente, grande e grosso come un armadio, la mente di un bambino. Le lasciava spesso piccoli regali accanto all'albero, foglie intrecciate, ghiande intagliate, piccoli oggetti che chissà dove trovava. Anche oggi c'era il suo regalo, finalmente proprio quello che aveva più volte chiesto, quasi implorato, sussurrandogli all'orecchio. La guardo un attimo scintillare alla luce del sole che iniziava a svanire oltre le chiome degli alberi, quindi si sedette, la raccolse furtiva e la nascose.
Il tempo restante scivolò via come sabbia tra le dita. Furono tutti invitati a rientrare, mentre i più recalcitranti venivano sospinti dentro con professionale durezza. Si costrinse a ingoiare l'insipida fredda cena che trovò nel piatto, quindi poté in premio accedere alla sala televisione.
Restò seduta in un angolo il resto della serata, la mente che vorticava sforzandosi di dare ordine ai flash mnemonici di loro due insieme. C'erano state cene deliziose, era un amante del cibo, di tutto ciò che solleticasse gola e sensi, e almeno per un poco le aveva fatto conoscere gusti intensi e originali, e solleticato il piacere stesso del gusto. L'aveva usata come cibo, come piatto, come contorno. Aveva mangiato con lei, su di lei, dentro di lei e avevano fatto l'amore, a volte prima, spesso durante e sempre dopo.
La prima volta era stata al ristorante. Un luogo lussuoso, quasi eccessivo, diverso da ogni posto in cui fosse stata prima con gli amici. A metà cena aveva dovuto andare in bagno, lui l'aveva seguita.

E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà,
dalle porte della notte il giorno si bloccherà,

Era entrato dietro di lei nel bagno delle signore. Enorme, dorato, ricco di specchi e marmi. Non aveva parlato, solo sorriso. L'aveva baciata profondamente, intensamente, come se da quello dipendesse la loro stessa sopravvivenza, spingendola poi dentro una delle toilette. Lei quel giorno indossava un vestitino viola scuro, semplice ma molto corto, che evidenziava le sue lunghe sottili gambe inguainate in un collant spesso nero.
Lui la fece girare spingendole le mani contro la parte di pietra bordeaux scuro, sollevò l'abito sui fianchi, le abbasso in un unico dolce, lento movimento collant e perizoma e sentì di colpo la sua mano, le sue dita. Comprese in quel momento cosa doveva aver provato il pianoforte sotto le abili dita della maestra di musica, si sentì solleticata, stuzzicata, suonata in una crescente sinfonia di piacere assoluto. Quando ormai era sul punto di urlare il suo piacere lui si fermò. La lasciò un istante boccheggiante, come le mancasse l'aria, quindi entrò dentro di lei, profondamente.
Lo accolse come un assetato una giara d'acqua fresca, i loro corpi si fusero e lui la scopò prepotentemente, senza parlare. Vennero praticamente insieme. I loro respiri per un poco soffiarono in sincrono, lenti, profondi, quindi lui uscì, e per la prima volta in quella situazione si sentì incompleta, mancante di qualcosa di naturalmente suo. Lui la baciò, sorrise, si riassestò un po' e uscì dal bagno, lasciandola sola a pensare.

un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà
e dalla bocca del cannone una canzone suonerà.

Uno strattone al braccio cancello l'immagine nella sua mente. Per un attimo era stata davvero ancora laggiù, con lui. Orrore le fece cenno di alzarsi, era l'ora di andare a dormire. Lo disse con un tono turpe, laido, con un sorriso maligno e il solito brillìo perverso nei piccoli occhi scuri.
Si alzò silente, lasciandosi accompagnare, quasi spingere verso il corridoio. La clinica era ormai quasi deserta, illuminata da basse, fredde luci al neon. Sentì la solita mano che scendeva a stringerle il sedere, meccanica, brutale, poi la fece scivolare sotto la lunga camicia bianca, infilando le dita sotto le mutandine. Cercò di accelerare il passo per scollarselo un poco di dosso ma come sempre fu inutile.
La condusse nella sua stanza, mentre le spingeva rude le dita dentro, sodomizzandola, e sussurrandole oscenità all'orecchio. Si girò per chiudere la porta dall'interno e allontanò momentaneamente la mano da dentro di lei.
Scelse quel momento. La tolse dalla bocca dove l'aveva nascosta dopo la cena, la strinse forte tra le dita e colpì mentre tornava a voltarsi verso di lei. La lametta da barba gli rigò la gola, quasi fosse una sottile penna rossa. Lui spalancò gli occhi, alzò le mani cercando di afferrarla mentre sottili lunghi spruzzi le colpivano il volto. Si scostò appena mentre cadeva a terra rantolando.
Restò un attimo a guardarsi la mano, si era tagliata tra le dita, abbastanza profondamente, mentre lacerava la sua carne. I tagli avevano da sempre un potere ipnotico su di lei, si feriva spesso, volontariamente per osservare il sangue uscire, assaporarne le sensazioni.
La mano di Orrore le strinse un piede e la riscosse, scalciò via lasciando cadere la lametta, che risuonò sul pavimento con un tintinnio. Girò la chiave nella serratura, uscì dalla stanza e la richiuse dall'esterno, allontanando il suono dei suoi ultimi rantoli, quindi si avviò lungo il corridoio.

Così la donna cannone, quell'enorme mistero volò,
sola verso un cielo nero s'incamminò.
Tutti chiusero gli occhi nell'attimo esatto in cui sparì,
altri giurarono e spergiurarono che non erano mai stati lì.

I suoi piedi nudi si mossero in completo silenzio, mentre discese lungo il corridoio, costellato di porte metalliche bianche, lucide, che non celavano però le tracce di ruggine nei bordi. Aprì piano la porta di sicurezza e si avviò verso lo scalone.
Salì leggera i quattro piani, mantenendosi in ombra lungo la scala, senza incrociare nessuno o udire alcun rumore, solo qualche lontano lamento, risata o urla dalle stanze lontane. Ma lei non li udiva veramente, sorda ormai ai suoni esterni ascoltava il proprio cuore battere forte, il proprio respiro crescere di intensità, l'intimo rumore dei propri passi che risuonavano nelle proprie ossa.
Giunse in cima e si avviò alla scaletta che conduceva al tetto, aprì la serratura con una delle chiavi del mazzo di Orrore e uscì all'esterno. L'aria era fresca, un vento intenso le scompigliò i capelli portando con se parole lontane, ricordi.
Lui amava Shakespeare, spesso a letto dopo aver fatto l'amore leggeva alcuni brani, intensi, profondi. Giunsero così parole dal Giulio Cesare. - e soffi pure il vento, ormai si gonfino i flutti e balli il legno! La tempesta è in atto e tutto è affidato al caso - .
Si abbandonò alla tempesta che la scuoteva dentro come il vento aggrediva la grande quercia del giardino. Sfilò dalla testa la lunga camicia, umida di sangue e la gettò a terra, quindi si sfilò anche le mutandine.
Allargò le braccia, muovendosi a piccoli passi, nuda nel vento. I piedi la condussero sul lato nord, proprio di fronte all'albero. La luce della luna si rifletteva sulle foglie che impazzivano, risuonando tra i rami.
Giunse al bordo. Un esile, giovane spirito nudo, sporco di sangue fuori, di vita dentro. Aveva in fondo commesso il peccato peggiore che un umano potesse commettere, non era stata felice.

E senza fame e senza sete
e senza aria e senza rete voleremo via.



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