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Racconto n° 4010
Autore: Faber Altri racconti di Faber
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L'uomo, il nastro rosso e il fantasma
Ne aveva sentito la necessità assoluta.
Di liberarsi.
Di lei, una volta per tutte.
Perché era da troppo, troppo tempo davvero, che ritornava. E ogni volta per lui alla fine era un nuovo, mutuato, immutabile tormento.
Insinuante, saliva come nebbia alle campagne, lambendogli prima solo di striscio un qualsiasi pensiero, poi comparendo e facendosi carne e desideri di impazzito sesso. E sì.
Magari l'uomo stava facendo altro. O era in situazioni in cui la sua apparizione, guarda caso avrebbe certamente creato turbativa o al minimo almeno imbarazzo.
E lei arrivava.
Puntuale, silenziosa. Impudente. Senza bussare entrava dalla porta ed era lì davanti.
Bella come sempre.
Pronta a farsi nuda e accogliente, sfidandolo a chi avesse meno pudori.
Seducente come il primo giorno.

E fu proprio un giorno come tanti altri, prima ancora di rendersi conto di quanto gli sarebbero mancati quei seni duri e a punta e quelle mani dalle dita affusolate e lunghe. Che lui decise fosse giunto finalmente il momento di liberarsene.
Non se ne fece cura.
Del vuoto che ne avrebbe avuto dopo, in cambio, nella sua definitiva assenza. Ma non aveva scelta.
Come si sarebbe ritrovato a dover spiegare dopo. Quasi incredulo di essere riuscito a farlo.
Di come avesse potuto farcela a mettere fine alla tensione dei pensieri e del suo sesso ogni volta che lei arrivando lo sfiorava. Di come.
Della perfetta macchina di libidine e desideri senza freno che aveva scoperto si potesse con lei guidare in due lasciandosi portare a scoprire nel costa a costa di un letto infiniti attracchi.
E ogni volta emozioni sempre più liquide nel corpo e negli occhi.
Sì. Ma non aveva scelta.
Aveva dovuto. Dovuto. Dovuto farlo. Perché è necessario liberarsi dei fantasmi.
E anche adesso chiuso nella stanza non ha dubbi.
Riesce quasi a non ripensare a quelle dita lunghe che gli offrivano lo schiudersi di petali di fica seduta sull'orlo di quel letto. Quasi ci riesce.
Riesce a non sentire quell'odore fortissimo di sesso, sfregamenti, sperma schizzato sul lenzuolo e sul suo corpo che cullava il loro prendere sonno prima di un nuovo amplesso. L'odore della fica di lei sulle sue dita.
Sul braccio con cui l'aveva sollevata come se fosse un dondolo incurante di qualsiasi suo gemito e preghiera, per le labbra fradice e gonfie.
Sul ginocchio e sulla coscia con cui l'aveva fatta amazzone fino all'orgasmo. Sul cazzo ritiratosi nel sonno, ancora rosso come quello di un cane dopo una giornata di caccia ai calori odorosi e offerti, al parco.
Sul viso, tutto. L'odore lucido del sesso.
Che aveva lavato fino a consumarlo, alternando le sue labbra tra le labbra di due bocche, saliva e fica fradicia di voglie, a mescolarsi ancora sotto la lingua di lei quando lei gli aveva leccato, lavandogliele, le labbra e la lingua.
E poi, puttana come una gatta, lucidandoglieli e rimangiandosi anche da lì il suo stesso sapore, gli occhi.
Ma ce l'aveva fatta, l'aveva uccisa.
Aveva scritto fine all'apparizione di un fantasma.
L'unica cosa che non riuscì a dire a se stesso era stata la parola "finalmente".

L'aveva uccisa nella sua mente.
Si era liberato di un fantasma. Che ogni volta aveva la capacità di svanire e non farsi corpo nuovamente.
Non che non ci avesse pensato altre volte, prima di farlo. Ogni volta che al piacere del suo arrivo si era sostituita la malinconia del corpo così terribilmente assente, dopo, aveva pensato che doveva farlo.
- In fin dei conti ho solo ucciso un mio fantasma - si ritrovò in quella stanza a spiegare all'uomo che aveva lì, seduto davanti, ad ascoltarlo, quasi indulgente.
- Ho ucciso i miei pensieri, ho ucciso l'idea che lei potesse un giorno venire qui e fermarsi -
- Sì. Si sente dolore ad uccidere i fantasmi, forse più che a uccidere qualcuno veramente -
- La sensazione è terribile, mi creda, è fisica, violenta, toglie il fiato e rende le braccia come morte dopo averlo fatto, quasi avessero dovuto stringere quel nastro al collo veramente -
L'uomo, ascoltandolo, si accese una sigaretta e continuò ad ascoltarlo senza fare alcun gesto né di approvazione né di stupore o di biasimo con la testa. Spostò soltanto il foglio bianco e la penna, che aveva posato sul tavolo di frassino chiaro che li separava, di pochi centimetri a lato.
Verso destra.
- Quello che non so se riuscirà a capire è che ho dovuto farlo. Dovuto. Non avevo alcuna scelta -
- Lei arrivava ogni volta e mi portava via pensieri, anima, sogni. E ogni volta che cercavo di averla vicina e stringerla scoprivo che serravo solo un mio sogno, un desiderio, il nulla -
L'uomo scrive qualcosa. Dal lato da cui l'altro che parla è seduto, non si riescono a capire, ciò che, capovolte, le tre parole, o forse quattro, cosa dicano posandosi fitte sulla carta bianca.
- E oggi ho finalmente trovato la forza di farlo. E' arrivata nei miei pensieri in silenzio, come sempre. E io l'ho fatto. -
- Ha cominciato a crescermi dentro, come sempre -
- A prendere forma e corpo. Odore. Ho persino immaginato la sua voce dirmi di seguirla nella stanza di fianco, sul letto. -
- L'ho vista prendere il nastro di raso rosso con cui ho mille volte vissuto il sogno di legarla, l'ho vista tenderlo maliziosa, fino a farlo linea tesa e sottile tra le mani larghe, con quello sguardo che così tante volte mi ha legato. L'ho vista tenderlo allontanando le mani dalle dita lunghe e calde, e poi sorridere in quel modo quasi infantile di chi sa di proporre in modo ingenuamente osceno qualcosa di illecito e eccitante.
- Ho dovuto farlo, ma le giuro che uccidere un fantasma può essere faticoso e doloroso come poche cose nella vita sanno esserlo.
E con un sorriso, per la prima volta, cercò il consenso negli occhi dell'uomo che aveva riposto la penna e piegato minuziosamente in quattro il foglio. Riponendolo poi nella cartella.

- Forse però è meglio che usciamo e che mi accompagni, adesso, non credi ? - furono le parole dell'uomo con la cartella subito dopo aver riposto il foglio. Ben piegato in quattro, con minuzia e calma.
Nemmeno si stupì, Angelo, che l'uomo che non conosceva gli desse del tu improvvisamente.
Si stupì piuttosto del sorriso triste che aveva accompagnato le sue parole, le prime, dopo averlo ascoltato raccontare di lui e del suo fantasma così a lungo.
Forse aveva davvero capito perché i fantasmi sono anche peggio delle presenze reali nella vita o stava semplicemente pensando ai suoi da cui forse lui a differenza di Angelo non era capace, non era stato ancora capace, di liberarsi. Sì.
Angelo si alzò, sentendosi leggero come raramente era stato in vita sua, quasi che raccontando a uno sconosciuto dei suoi fantasmi si fosse tolto l'ultimo peso residuo della loro presenza addosso.
Poi l'uomo che ora lo aiutava ad alzarsi non poteva non averlo capito, la professione di psicologo doveva necessariamente avergli permesso di sentire di che carne dolente sono fatti e costituiti i fantasmi.
- Mi dia una mano - gli chiese alzandosi, perché di colpo si era reso conto che con gli occhiali avrebbe incespicato certamente.
- Li uso per leggere e guardare da vicino, sa, gli anni sono impietosi con la vista, anche per chi è abituato a vedere fantasmi, ma ho l'equilibrio di un ubriaco se li indosso camminando - e rise.
- E poi con queste - e sollevò i polsi, tenuti troppo stretti dalle quattro maglie di catena che univano le manette per permettergli di usare le mani come avrebbe voluto e dovuto - da solo non riesco proprio a farlo -
- Sì. Grazie - disse all'uomo che glieli aveva sfilati dal naso delicatamente - ora li può infilare nel taschino della giacca, che credo mi serviranno dopo ancora, come sempre.
Prima di uscire dalla stanza guardò ancora una volta la piccola folla operosa che mentre erano al tavolo e lui stava parlando e raccontando, non aveva smesso un secondo di muoversi e agitarsi in silenzio.
Guardò i nastri di cellophane colorato che cingevano in geometrie da film mobili e oggetti.
Guardò il fotografo che faceva miniature della stanza e della casa, come forse nemmeno un giapponese avrebbe fatto per copiarla identica al suo paese al suo ritorno in patria. E ne sorrise pensandolo.
Guardò gli agenti raccogliere e imbustare oggetti e prendere misure incomprensibili ai suoi occhi con un metro blu a chiocciola.
Prima di uscire, passando davanti alla porta aperta della camera da letto, guardò lei.
Sdraiata, nuda, un piede quasi riusciva a toccare il suolo a lato. E le cosce aperte sul sesso chiuso, glabro. Il seno fermo nell'assenza di respiro e come unico vestito il nastro di raso rosso cinto al collo. Affondato dalla forza con cui l'aveva stretto a celarsi nella carne del collo e distinguibile solo per i due lacci che disegnavano volute bordeaux, riccioli, sul letto.
Non si era mai accorto che lei fosse stata così pallida. O forse era colpa della luce del flash che la rendeva quasi esangue agli occhi con cui la guardava per l'ultima volta adesso.

Lo vide solo lui.
Quello che successe in quel momento.
Si trattenne dal richiamare l'attenzione del poliziotto che stava guidandolo, si trattenne a stento.
L'improvviso. Lei alzarsi, quasi a sedere senza parole sul letto. Passarsi una mano rassettandosi i capelli. Carezzarsi un seno con dolcezza per il solletico che i capelli sfregandolo le avevano dato. Il nastro, i due capi liberi scivolarle tra i seni come a chiamarlo ancora una volta ai loro giochi di amanti.
Era bellissima così pallida. Quasi se ne commosse come se n'era commosso di quella bellezza quasi innaturale da sembrare infranta e infrangibile la prima volta che lei era arrivata in sogno.
Era quasi più di come la ricordasse essere nei sogni.
Lui fu certo che lei gli avesse sorriso in quel momento, cogliendo il suo stupore ammirato posarsi ancora sul suo corpo.
Maliziosa.
E che quel nastro al collo non sarebbe stato sufficiente a fermare il suo fantasma.
Marianna.
Uscì dalla porta, scese in strada e l'agente lo fece salire, aiutandolo come fanno nei film americani in auto, con una mano sulla testa.

Faber

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