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Racconto n° 4294
Autore: Eva Blu Altri racconti di Eva Blu
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Nessuna ragazza al mondo
da un giornale locale

Ieri serenamente spegnevasi la
N.D. Marianna Urrata di Capopassero
Ne danno il triste annuncio la sorella Adele, il figlio Mario con Graziella e i nipotini tutti.
I funerali saranno celebrati oggi alle 12 nella chiesa dell'Immacolata Concezione.
Non fiori ma opere di bene



I pinocchietti bianchi no. I pantaloni aderenti che mi lasciano scoperta la caviglia non li metto. E nemmeno le scarpe col tacco basso, i mocassini scollati, che pure mi stanno tanto bene. Non posso indossarli oggi, la zia Marianna non merita che io mi presenti così da lei.
Oggi è il suo funerale.
Metterò jeans a vita bassa, un paio di scarpe chiare unisex, una camicia bianca senza colletto e una giacchina scura di lino. Unica concessione, un paio di gambaletti a rete fumé, ma quasi non si vedranno. Poi la collanina e il bracciale che mi regalò lei per la laurea e l'anello che mi mandò dopo l'abilitazione.
Ora facciamoci forza.

Il paese mi accoglie con la scritta che c'era anche vent'anni fa: città denuclearizzata. Mi è sempre sembrata una cosa idiota e priva di senso, ma tant'è. Un'ora e mezza di aereo, più due ore per arrivare fin qui dall'aeroporto non mi pesano più dell'ingresso in queste strade, fra questi incroci stretti, oggi marcati a vista da extracomunitari di ogni tipo e provenienza. I nuovi diversi: c'è sempre bisogno di qualcuno da guardare con diffidenza.
Riconosco ogni posto, ogni spazio, ogni odore. Persino il vento mi sembra uguale, fa sempre lo stesso effetto caldo sulla mia pelle delicata e troppo bianca, per queste latitudini. Ho il viso fasciato da un paio di occhiali scuri da pilota, i capelli tirati all'indietro e raccolti in un sobrio tupè.
Potevo prendere il bus, ma ho preferito noleggiare un'auto. L'ho lasciata al parcheggio che sta all'ingresso del paese, ho voluto fare qualche centinaio di metri a piedi, ho tuffato le mani nelle tasche della giacchina e la mente nel mio passato. Attraverso l'aria, come sempre tiepida. Non l'ho mai dimenticata, quest'aria che tanto tempo fa, quando andai via, mi era proprio divenuta irrespirabile.
Mi faccio forza. Sono a casa della zia Marianna. Ora viene il difficile.

C'è una piccola folla, raccolta davanti al portone. Mi sento gli sguardi di tutti addosso, ma ho la certezza che nessuno mi riconosca. Gli occhi degli uomini, lo avverto, più o meno delicatamente accarezzano il mio posteriore, quelli delle donne sono rapiti dalla mia andatura elegante.
Sulla soglia c'è una figura canuta, scolpita di rughe, avvolta in uno scialle di lana pesante che le copre le spalle. È zia Adele, la sorella di zia Marianna. Guarda verso di me senza riconoscermi. Istintivamente le sorrido con la dolcezza triste del mio e del suo immenso dolore, si incuriosisce e a questo punto mi tolgo gli occhiali. Aggrotta le ciglia per vedere meglio, poi si distende in un sorriso.
- Roberto! Finalmente sei arrivato! -.
La mia terza abbondante pesa a me ma non alla zia Adele: potrei pure essermi operata - ma non l'ho fatto - io per lei sarò sempre e comunque Roberto. Mi faccio largo tra le persone che affollano il corridoio, la zia mi guida tenendomi per mano fino al salone. Risolini e gomitate sono molto discreti: la gente almeno aspetta che io sia passata, prima di scambiarseli.
La bara in mogano è nel salone della grande casa padronale. Attorno ci sono pochi fiori, tutti sapevano che la zia Marianna era per le opere di bene, non c'era bisogno che lo facesse scrivere nella necrologia pubblicata sul quotidiano locale. Non ho sbagliato a presentarmi a mani vuote.
La zia Adele si aggrappa al mio braccio, mi spinge fino a farmi vedere la figura esile che riposa in pace. Poggio una mano sulla mano di zia Adele. Un rivolo silenzioso mi riga la guancia, ma non fa danni, perché, sempre per rispetto alla zia Marianna, non ho messo un filo di trucco oggi. Solo il lucidalabbra, ma una strisciolina appena. Mi sembra che dalla bara lei distenda il viso fino a sorridermi impercettibilmente.
Accanto al salone c'è la cucina, e lì c'è lui.
Mi vede, lascia le persone con cui stava parlando senza nemmeno scusarsi, punta deciso verso di me. Finora avevo resistito, ora gli incisivi mi si appuntano sul labbro inferiore come se quel morso fosse l'unico sistema per aggrapparsi a una roccia e non precipitare nel vuoto, ma appena i suoi occhi chiari spariscono nell'abbraccio forte in cui mi stringe, mollo tutto e scoppio a piangere disperata, e lui con me.
Quanto rimaniamo appiccicati l'uno all'altra, quanto rimaniamo fusi in una sola persona? Non lo so, forse lo siamo sempre stati e non ce ne siamo accorti, o forse ne siamo stati sempre consapevoli e abbiamo fatto finta di nulla. Ci stacchiamo a fatica, lui mi carezza con due dita il volto inzuppato delle mie e delle sue lacrime, io con due dita carezzo il suo, ci guardiamo con intensità, ci vogliamo sempre bene.
Mi porta in cucina, con la scorta della zia Adele. Sono entrambi incuranti degli ospiti che si scambiano paroline all'orecchio. Mi offre un bicchiere d'acqua, con la bottiglia - sempre la stessa, avrà cent'anni - col tappo incorporato, tipo idrolitina. Mi ricordo del lucidalabbra, esito un po' prima di bere. Lui ha capito, sorride.
- Sempre questo lucidalabbra! - scherza, prendendomi per mano e riportandomi in salotto -. Vieni, voglio presentarti mia moglie.


* * *

Vuole presentarmi sua moglie, dice.
Dovrei restare del tutto indifferente. Forse lo sono. E del resto lo sapevo. Ma in realtà quelle parole, "voglio presentarti mia moglie", mi riportano a tanto tempo fa e il ricordo è come il vento che entra sotto la porta, fa male perché certi spifferi possono essere assassini. Pure vent'anni fa era settembre, avevamo appena fatto la maturità, e io avevo deciso di andare fuori, per studiare Architettura.
Il paese mi stava stretto, non capiva, non accettava, papà e mamma litigavano sempre, stavano quasi per separarsi per colpa mia, i miei fratelli si vergognavano di me, i ragazzi mi sfottevano pesantemente, le ragazze mi sfuggivano. Di me si dicevano tante cose, quasi tutte di sesso e quasi tutte vere, quasi tutte sporche e quasi tutte nascoste, e soltanto lui, Mario, si faceva vedere con me. Era già allora un bel ragazzo, alto, biondo, occhi chiari. Eravamo cresciuti insieme, mi voleva bene, non temeva la mia fama ambigua.
C'era caldo, quel pomeriggio: ero andata a salutare la zia Marianna, che a me zia non veniva ma la sentivo tale; era la mia seconda mamma, la mia confidente. Lei però era uscita, col marito. Mario, suo figlio, il mio amico del cuore, era solo in casa. Mi aveva fatta entrare in cucina.
Quella cucina in cui ora, vent'anni dopo, mi dice che vuole presentarmi sua moglie.
- Mi dispiace che tu te ne vada - aveva detto.
Aveva aperto il frigo, aveva preso la bottiglia, quella bottiglia col tappo incorporato.
- Anche a me dispiace.
Mi aveva versato l'acqua nel bicchiere. Il sorriso era stato dolce.
- E allora resta.
- No. Qui non reggo più.
L'acqua era fredda, il bicchiere si era appannato. Io lasciai sul bordo l'impronta del lucidalabbra e lui me l'aveva tolto di mano.
- Hai ragione. Il paese non è molto tollerante. Però, insomma! Metti il rossetto e il lucidalabbra, come le femmine. Porti i capelli lunghi, con un taglio decisamente femminile. Non hai barba, come le femmine. Hai pure le tette... Quando andiamo al mare con te, non c'è bisogno di andare a spiare nella spiaggia delle nudiste o di andare al cinema a vedere la Fenech -.
Me le aveva guardate, piccole ma abbastanza sbocciate sotto la magliettina leggera, mi aveva messa in imbarazzo.
- Non è colpa del paese se sembri proprio una donna -.
Forse, avevo pensato dentro di me, non lo sembro ma lo sono sempre stata, gli ormoni che prendevo e che mi gonfiavano fianchi e seno erano solo un aiuto per trovare me stessa e allora stavo per dirglielo, volevo parlargli di quegli argomenti scabrosi (macché scabrosi! era la mia vita, cazzo!), volevo parlarne con qualcun altro che non fosse la zia Marianna, con cui mi ero confidata, sotto giuramento di non dirlo mai a nessuno. Volevo parlarne con lui, ne sentivo il bisogno. Proprio con lui, volevo parlarne.
Invece gli dissi altro, tirai fuori - non so come - le parole da una soffitta della mia anima che avevo chiuso a doppia e tripla mandata, pensando poi di avere buttato la chiave per sempre.
- Vedi, nell'andarmene mi dispiace soprattutto di lasciare te. Perché so che non voglio mai più tornare qui. Ma so pure che non ti troverò in nessun altro posto del mondo -.
Mario era rimasto interdetto, a bocca aperta. Era calato il silenzio, fra di noi. Avevo abbassato gli occhi, non reggevo il suo sguardo. Lui si era ripreso dopo un po'.
- Mai nessuna ragazza, mai una donna mi aveva parlato così. Chissà se ce ne sarà mai una, capace di essere come te -.
Mi sentii come un tuffo al cuore.
- Vieni - mi aveva detto poi, prendendomi per mano.

* * *

Mi aveva presa per mano, esattamente come fa ora, vent'anni dopo, per fare le presentazioni.
- Lei è Graziella. Graziella, lei è... -.
Perché questo silenzio, questo imbarazzo? Graziella mi guarda interrogativa. Non è bellissima ma non è nemmeno malaccio. So tutto di lei. Classica paesana di un altro paese, della serie desperate housewife. Hanno tre figli. Zia Marianna mi ha mandato le foto di ciascuno di loro, nascita, battesimo, comunione. Lei, Graziella, si dev'essere appesantita per le gravidanze. A Mario - io lo so - piacciono le magre. Io gli piacevo, io ero magra e lo sono ancora.
- Roberta - dico sorridendo e tendendole la mano.
Nel sentire il mio nome, Graziella si irrigidisce un po', lo vedo.
- Ah, lei è... Roberto? - chiede rivolgendosi al marito.
- Roberta - taglia corto lui - lei è Roberta, la mia più cara amica d'infanzia -.
Chissà se le ha mai parlato di noi. A giudicare da sguardi e silenzi, credo proprio di sì.


* * *

Il ricordo mi ha invaso, non so opporre resistenza. Mi assilla, mi turba.
Da casa sua alla masseria in collina erano due passi, con la sua potente Suzuki. Mi era sempre piaciuto andare dietro di lui in moto, le sue accelerazioni erano fulminee e irresistibili, era un modo sicuro per poterlo stringere come volevo e come sentivo di volerlo.
Una passeggiata, mi aveva detto, facciamo l'ultima passeggiata prima che tu parta.
Non appena scesi dalla moto, però, mi aveva presa con due dita per il mento, proprio come si fa con le ragazze.
- Non hai un'ombra di barba - aveva detto sottovoce e aveva cominciato a baciarmi le guance dentro il fienile, dove aveva posteggiato la moto.
Io all'inizio mi ero ritratta, non volevo che Mario si "sporcasse" con me, lo amavo troppo per turbare la sua fama da macho, ma lui aveva continuato e la mia bocca si era fatta sorprendere aperta dalla sua lingua e la mia lingua non aveva resistito, la sua bocca era entrata dentro la mia e mi era sembrata la cosa più naturale di questo mondo, baciavo un altro ragazzo ma io non ero un ragazzo, ero una ragazza, ero finalmente quella che avevo sempre sognato, ero la sua ragazza.
Era stato un bacio lunghissimo e silenzioso, i nostri respiri si erano fatti pesanti mentre continuava a succhiare il mio sapore e la mia anima; sempre baciandomi teneramente mi aveva palpeggiato dolcemente prima una mammellina, poi l'altra, poi tutt'e due assieme e alla fine mi aveva presa in braccio - per lui ero come un fuscello - e, come se mi tenesse per la lingua con la sua, mi aveva portata in casa, direttamente sul lettone di suo padre e sua madre, uno di quei letti in ferro battuto di una volta, alti e possenti.
- Mario, cosa stiamo facendo? - avevo osservato già mezza nuda, seduta sul letto, completamente in suo potere, accaldata e ancora desiderosa di dissetarmi dalla sua lingua morbida.
- Robertina, gioia mia, non dire niente, per favore - aveva risposto lui, parlandomi al femminile, cosa che adorai subito, perché era lui che lo faceva. - Baci meglio di una femmina vera... -.
Mi ero staccata.
- Io sono una femmina vera. Non è la vagina, che fa la donna. Né le palle fanno l'uomo - e nel dirlo notai i suoi testicoli avvolti da una morbida peluria, il suo sesso poderoso, che tante volte avevo sognato nell'amare altri uomini.
Non amava i discorsi intellettuali, preferiva andare al sodo. Ci amammo a lungo, mi ripeteva di adorarmi e di volermi, non credevo potesse essere così bello.
Alla fine rimanemmo distesi, nudi, sudati, sopra il bel copriletto antico di sua madre. Stavamo in silenzio, incapaci di guardarci, fissando il soffitto. Solo le cicale da fuori e il ventilatore a pale dal tetto borbottavano qualcosa. Lui aveva preso la bottiglia con l'acqua fresca, aveva bevuto e poi mi aveva offerto da bere. Trovavo molto intimo e seducente bere dallo stesso bicchiere. Ma come sempre avevo sporcato il bordo. Nemmeno la possibilità di prendermi un po' in giro, però, gli aveva restituito la parola. Era veramente imbarazzatissimo e io ero terrorizzata che si fosse rovinato tutto, il sentimento dolcissimo che ci univa, l'intesa unica che avevamo raggiunto, la complicità da innamorati.
Esitai un bel po', poi spinsi la mano e gli presi la sua. Me la strinse, sempre guardando in alto, sentii che si distendeva in un sorriso dolcissimo. Non vidi più il soffitto con le volte affrescate, vidi il cielo stellato e mi immaginavo distesa con lui su un prato verde, senza nessun'altra cosa attorno che le margherite, le cicale, i grilli e le farfalle.


* * *

Ora, invece, vent'anni dopo, devo tentare di contenere Graziella, che mi scruta con l'aria del detective.
- Mario mi ha parlato di te. Parla molto di te.
- Spero bene - mi sforzo di sorridere, ma sono imbarazzata.
- No, benissimo, non temere. Mi ha fatto capire che sei molto brava. E così vivi al Nord. Sei... sposata? -.
Le sorrido. Vuole provocare, ma non attacca.
- Ho un compagno. Ma siamo un po' in crisi. Sai com'è, la crisi dilaga pure tra le coppie, al giorno d'oggi.
- Capisco, dipende anche dal tipo di coppie. Da quanto tempo non... 'venivi' qui? -.
Insiste nel provocare. Noto pure che strascica ad arte il venivi, mi infastidisce, ma è la moglie di Mario e non potrei mai maltrattarla.
- Vent'anni esatti. Sono andata via vent'anni fa, più o meno come oggi -.
E ora, vent'anni dopo, è tutto più difficile. La zia Adele viene in mio soccorso, mi prende con la sua mano rugosa e dolce al tempo stesso, e fissa il pavimento.
- La zia Marianna ha lasciato quella busta per te - dice ad un tratto, prendendo da un cassetto un plico bianco scritto con l'inconfondibile, per me, grafia della defunta.
- Di cosa si tratta? - sorrido -. Della sua eredità? -.
- Forse. Qualunque cosa sia, fanne buon uso - aggiunge zia Adele, mentre si alza e va a sedersi da un'altra parte.


* * *

In verità una specie di eredità la zia Marianna me l'aveva consegnata il giorno in cui dovevo andare via, quando ero andata a salutarla.
Speravo anche di ritrovare Mario. Ci eravamo lasciati qualche giorno prima e avevo giurato a me stessa, per lui, che quella sarebbe dovuta essere l'ultima volta. Mi ero fatta forza, violenza.
In realtà già quel giorno avevo nostalgia dei suoi baci. Sarei tornata a trovarlo, lo sapevo bene che non avrei resistito. Lui sarebbe venuto da me: nella mia nuova città avrei abitato da sola, sarebbe potuto venire se e quando lo avesse ritenuto, "male che ti vada avrai tutta me, se ti andrà, per una notte sono tua", cantavo con Mia Martini e mi sentivo stupida. Macché stupida, ero innamorata persa.
Non mi importava nulla di nulla: volevo sposarlo, cambiare sesso e sposarlo, svegliarmi la mattina con lui, fargli il caffè, baciarlo dappertutto e fare la doccia insieme, preparargli il pranzo, fare la spesa con lui e provare la stupenda sensazione di lui che si faceva strada dentro di me massaggiandomi il seno, baciandomi i capezzoli con i suoi forti e dolcissimi polpastrelli. Risentivo il suo sapore in gola e sulle labbra, sentivo il suo calore riempirmi le viscere, sempre più dentro.
- Roberto non è in casa -.
Zia Marianna mi apparve subito gelida e io non capivo perché.
Mi aveva vista crescere. Mi aveva vista progressivamente deviare verso la mia vera natura, giocare con le bambole da piccola, leggere i suoi fotoromanzi da adolescente, e forse si era pure accorta che, divenuta più grandicella, ogni tanto rubacchiavo in casa sua qualche capo di biancheria intima femminile, per indossarlo in gran segreto. Ma aveva sempre fatto finta di niente.
Per lei ero come un figlio, o una figlia, e lei per me era una madre e un padre al tempo stesso. "Ti accetto così come sei, perché io ti voglio bene come ti senti di essere", mi aveva detto una volta.
Ma quel giorno era diverso.
- Vuoi un po' d'acqua? -.
Non ne avevo voglia, ma accettai per cortesia. Bevvi e subito dopo mi resi conto che stavo lasciando l'impronta del lucidalabbra. E per associazione di idee mi balenò in mente che nella frenesia del sesso avevamo dimenticato il bicchiere sporco anche nella masseria. Portai frenetica il bicchiere vuoto verso il lavandino, andai per sciacquarlo.
Mi sentii prendere per un polso.
- Perché con mio figlio? Perché nel mio letto? -.


* * *

Oggi, vent'anni dopo, è arrivato il momento più duro.
La chiusura della cassa non la reggo proprio. L'odore di zinco, il calore del saldatore, il trapano che fissa le viti. Da quando Mario mi ha presentato sua moglie non si è più avvicinato, non ha più alzato gli occhi verso di me. Mi rifugio in una stanza accanto al salone, lì ci sono le foto di tutti noi bambini. Ci sono io vestita da strega cattiva. Era Carnevale, avevo undici anni, avevo già scelto da che parte stare.
Istintivamente metto la mano in tasca, sento la busta della zia Marianna sotto le dita. Vorrei aprirla dopo, a casa, ma non resisto e la apro.
- Mario mi ha detto tutto -.
Sobbalzo, non mi aspettavo che Graziella mi raggiungesse e mi sorprendesse tra i miei ricordi e mentre, a modo mio, sto parlando con zia Marianna. Mi giro a guardarla. Sì, dev'essere sfiorita per via delle gravidanze, a Mario piacevano le belle ragazze e lei lo era di certo. Non sopporto l'idea che il mio amore abbia sposato una brutta, capace solo di dargli figli e basta.
- Vi siete visti, di recente? -.
È desolata. Si vede che vive per quella risposta, l'idiota non deve averle lesinato i particolari, di quella storia di tanto tempo fa.
- No. Non lo vedo da vent'anni. Sua madre me lo proibì allora. Le ho obbedito ciecamente. E non ti nego che mi è pesato. Ma gliel'avevo giurato. Lei mi ha amata così com'ero, lei mi ha aiutata. E non era mia madre. E nemmeno una vera zia -.
Nascondo alla sua vista la lettera di zia Marianna. Non fumo, di solito, ma ora ho bisogno di una sigaretta, la zia non sopportava che si fumasse in casa sua. Porto Graziella nell'orto.
- Non sarò più tranquilla, da oggi in poi. Tu sei bellissima. Non sei una donna, ma sei lo stesso tanto bella e sensuale -.
Fumo e la guardo, mi dispiace vederla così.
- Non succederà niente. L'ho promesso a sua madre. Stai tranquilla -.
- Non resisterai, non resisterete, lo so. Ci sono cose a cui non si resiste -.
Se ne va, resto sola e leggo la lettera di zia Marianna. Quando scriveva era sempre di poche parole. Non si è smentita nemmeno stavolta.
- Promettimi che non lo rifarete - ha vergato con la sua grafia inconfondibile.


Il funerale è finito. Siamo fuori dalla chiesa. Il corteo funebre si scioglie. Sfilano amici e parenti. Nessuno mi bacia.
Devo ripartire, ho l'aereo in serata. Mario mi tiene per mano, parla sottovoce.
- Ti accompagno alla macchina.
- No. Vado da sola.
- Ora che mamma non c'è più verrò a trovarti.
- No. Hai moglie e tre figli. La tua vita è qui, con loro.
- Non puoi impedirmelo.
- Te lo impedirò.
- Ma che c'è di male? Vorrei solo parlarti, rivederti... - mente e non sa farlo, poi torna ad essere autentico -. Ne avevo parlato con mamma, ho scoperto che lei sapeva. Non resisto, Roby, sei ancora più bella di allora... -.
- Zia Marianna, tua mamma, non voleva. E io gliel'ho promesso tanti anni fa. E anche adesso -.
Graziella non si avvicina, parla con amici e parenti ma non pensa a quel che dice, pensa a quel che vede. A noi due che parliamo piano e animatamente.
Lo abbraccio, avverto il calore intimo della sua stretta, mi sento sul pinnacolo del tempio e penso che sto per cadere e che i miei angeli non saranno lì a sorreggermi.
- Mario! -.
- Sì -.
- Niente -.
- No, dai, dimmi -.
- Un'altra ragazza, capace di... dirti quelle cose che ti dissi io... -.
Mi guarda, mi sorride, mi mette addosso una voglia di piangere infinita.
- No, mai. Non l'ho trovata. Sei rimasta l'unica al mondo -.



* * *

da un giornale locale
Un tragico destino ha strappato all'affetto dei suoi cari l'architetto Roberta Carnati, rimasta vittima di un incidente stradale sulla strada provinciale che collega la città con il capoluogo. Era tornata nel suo paese natale dopo vent'anni, per partecipare al funerale di un'anziana zia, la nobidonna Marianna Urrata di Capopassero. L'architetto, che aveva 39 anni, è uscita di strada in prossimità di una curva. Gli inquirenti non hanno trovato segni di frenata in prossimità del guard rail, ma quella del possibile suicidio è solo un'ipotesi. In un primo momento la polizia era rimasta disorientata dal nome di battesimo, scritto al maschile sul documento di identità della vittima. L'architetto Carnati era infatti una transessuale.
La giovane e bella donna sarà sepolta in paese, accanto all'unica zia che le aveva voluto bene come a una figlia. E non era nemmeno sua zia.

Eva Blu

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