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Racconto n° 4666
Autore: Morgause Altri racconti di Morgause
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Codex Gigas

Appenna arrivato a Cerviano il giovane parroco fu accolto con diffidenza: era troppo bello per essere prete, così alto, bruno e maschio, non portava mai la tonaca ma jeans e magliette o maglioni, girava in moto, insomma era poco credibile.
In breve le cose cambiarono: le donne cominciarono ad affollare la Chiesa, alcune con l'evidente scopo di sedurlo, altre se ne innamorarono perdutamente sussurrandone in gran segreto tra di loro mentre i giovani lo seguirono con entusiasmo per formare una squadra di calcio; con l'allenamenteo di don Paolo presto furono in grado di iscriversi a piccoli tornei che radunavano gente anche dai paesi vicini.
Era gentile e premuroso, si adoperava per chiunque avesse bisogno, insomma divenne quasi un santo per la popolazione.
Fu soprattutto l'assenza di pettegolezzi su suoi eventuali cedimenti al richiamo della carne a conferirgli tale aureola.
E quando Annamaria che era considerata la ragazza più appariscente e anche, ufficiosamente, la mignotta del paese dopo
averlo corteggiato sfacciatamente rispolverando la confessione pressoché giornaliera ammise di non aver concluso nulla, tra i maschi ci fu qualcuno che decretò:
-L'è un preve sensa belin- (n.d.a. belin in genovese è il pisello).

Ma non era così: semplicemente don Paolo aveva imparato a dominare la carne; la sua decisione di rinuciare a certe gioie terrene era stata meditata a lungo e riteneva che tradire un patto stipulato tra lui e quel Dio che amava, o almeno credeva di amare con tutte le sue forze, era impensabile.
Così fino ad allora era riuscito a allontanare da sé ogni desiderio di donna, tanto che le esperienze sessuali avute prima del sacerdozio erano state relegate in fondo alla mente: solo nei sogni a volte facevano capolino, ma raramente.
Le sue giornate erano piene, intense, ricche di mille iniziative in cui era seguito dalla popolazione

Maricel, una donna di mezza età colombiana andava tutti i giorni a prepargli il pranzo, ad accudir lui e la canonica e spesso aiutava anche Pietro il sacrestano a sistemar la chiesa.
Era di pochissime parole, abitava da sola e non dava confidenza a nessuno.
Quando si buscò un malanno telefonò al prete:
-Don Paolo, sto malissimo, ho la febbre. Domani se a lei sta bene, mando mia nipote, Selma, è arrivata dalla Colombia da 10 giorni, non vuole uscir di casa, dice che la gente qui le fa paura. Ma è molto religiosa e da lei verrà; vedrà che si troverà bene, in casa sa far di tutto, meglio di me, anche se è molto giovane-
-Va bene- rispose il sacerdote già con la testa altrove - ma riguardati, capito, Maricel?-

Il giorno dopo alle 8 del mattino, suonò il campanello della canonica e don Paolo andò ad aprire: si trovò di fronte una ragazza di media statura infagottata in una gonna e camicetta scure, informi, portava i capelli legati sulla nuca e teneva gli occhi bassi. Con voce incerta mormorò:
-Buon giorno Padre sono Selma-
la voce era melodiosa, ricca di sfumature, in contrasto con quella donna dimessa che gli stava di fronte.
-Prego, entra, Maricel mi ha detto che l'avresti sostituita-
Allora lei alzo gli occhi sul viso del parroco: le palpebre pesanti coprivano in parte le iridi gialloverdastre striate come quelle dei gatti, rendendoli stranamente oblunghi, da idolo atzeco: quello sguardo era carico di significati oscuri, sorrideva inquietante in contrasto con la bocca dalle labbra immobili.
Lui sentì uno strano brivido lungo la spina dorsale, un brivido di gelo; restò immobile per un attimo, come stregato, poi si fece da parte e lei entrò. Pareva che Selma conoscesse già le stanze della canonica tanto si muoveva sicura dopo che il prete le ebbe fornito ben poche indicazioni.
Dalla studio dove stava preparando la predica attraverso la porta aperta ogni tanto osservava la ragazza trafficare in cucina: lei non si voltò neppure quando gli chiese che cosa preferiva cucinasse per il mezzogiorno e la sera.
Ma i suoi occhi lo ossessionavano, non poteva smettere di pensarci. Si alzò di scatto e chiuse la porta, pregando Selma di andarsene quando avesse finito senza disturbarlo. E così fu.

Passò una settimana in cui don Paolo si trovò stranamente ad aspettare le otto di mattina per intravvedere quello sguardo. Poi faceva in modo di uscire o rintanarsi nello studio: la ragazza stava entrando nei suoi sogni che ora erano diventato francamente osceni.
Su di loro la sua volontà nulla poteva.
Lo lasciavano al risveglio debole, come battuto da mille verghe, con delle fitte all'inguine da ridurlo curvo e mugolante a mezza strada tra il letto e il bagno.
Quindi arrivò quel sabato pomeriggio che cambiò la sua vita.

Era una splendida giornata: il giovane prete pensò di arrivare a piedi fino al piccolo lago tra i monti sovrastanti il paese. Ci si arrivava anche in fuoristrada; ma lui conosceva dei sentieri poco battuti che gli avrebbero fatto risparmiare tempo sul percorso della mulattiera e poi camminare nei boschi in solitudine lo avrebbe aiutato a veder più chiaro in quella confusione mentale che lo perseguiyava da giorni.
A un certo punto, quando pensava di essere quasi arrivato, dal folto dei cespugli che nascondevano il sentiero gli giunsero delle voci giovani, risate e un rumore di corsa.
Si bloccò e si fece strada tra il fitto degli alberi seguendo quelle voci quasi fosse un topo dietro al pifferaio magico.Cercò di muoversi silenziosamente, mentre il cuore prendeva a battergli forte nel petto e una strana angoscia gli spezzava il respiro perché man mano che si avvicinava riconosceva sempre più nitidamente una delle voci, quella femminile: era di Selma.
Lo aveva avvisato il venerdì che il sabato non sarebbe andata da lui perché doveva stare con la zia che non si riprendeva.
Avanzò ancora tra la sterpaglia e dopo pochi passi si rese conto che la barriera verde finiva bruscamente: al di là c'era una radura, un piccolo anfiteatro con rocce candide che spuntavano come denti dall'erba morbida, circondato da alberi e rovi; i ragazzi arrivarono correndo,nudi e stillanti acqua, dal lago che doveva essere vicinissimo. Selma era insieme a due ragazzi, Francesco e Lorenzo che facevano parte della sua squadra di calcio.
Restò immobile, poi si inginocchiò nella sterpaglia bucandosi con i rovi per farsi più piccolo e guardare attraverso uno spiraglio quasi al livello del terreno.
Avrebbe voluto fuggire con tutte le sue forze, si sentiva in equilibrio precario sull'orlo di un pozzo da cui, lo sapeva, non sarebbe più risalito.
Ma restò lì a guardare, era come incollato al terreno.

Selma aveva i capelli neri sciolti, i seni abbondanti per quel corpo così esile che sotto il fagotto dei vestiti indossati abitualmente scompariva, i fianchi snelli da ragazzo, le gambe lunghe che terminavano in un sedere morbido, tondo; erano vicino a lui, in piedi su una vecchia coperta stesa sull'erba.
La ragazza abbracciò Francesco e lo baciò con forza, mentre strusciava il ventre contro quello del giovane: le mani dei due erano ovunque sopra il suo corpo.
All'improvviso si staccò da loro, spinse Francesco sulla coperta, ridendo e si inginochiò tra le sue cosce: passò la lingua sul ventre, quasi ad asciugarne l'acqua, poi sugli inguini infine lo prese in bocca succhiandolo avidamente, accompagnando con la mano quel divorare di passione, mentre il ragazzo gemeva sempre più forte. Lorenzo si mise dietro di lei e prese a fiutarla, come un cane con una cagna in calore, poi a leccarla con foga prima di penetrarla con violenza; Selma ebbe uno scarto per alzare il viso al sole con gli occhi sbarrati mentre un grido di piacere le usciva dalle labbra bagnate.

Il prete, rattrappito nel suo nascondiglio, sentiva che la vita gli stava sfuggendo per raccogliersi tutta lì, nel fallo eretto: era diventato quello, era solo quello ormai.
Vide la bocca di Selma abbandonare il sesso di Francesco e con uno scarto liberarsi di Lorenzo per sistemarsi sul ventre del primo e impalarsi su di lui, poi piegarsi in avanti porgendogli i seni da succhiare, mentre con un sorriso ammiccante offriva il sedere all'altro ragazzo che la forzò senza riguardo con una unica spinta.
E poi fu tutto un turbinio di corpi impazziti, di gemiti, la donna tra i due maschi sembrava impazzita, roteava i capelli come fossero fruste, fino a che raggiunse l'orgasmo, serrando in una morsa i ragazzi che si svuotarono nel suo vorace ventre quasi contemporaneamente.
Fu allora che don Paolo schizzò in cielo in un lampo di piacere che mai aveva provato in vita sua: venne con una intensità tale da stordirlo, così come era, piegato su se stesso, quasi a trattenere il seme e proteggere l'urlo che faticava a tenere in gola.
Restò immobile non seppe mai per quanto tempo: quando riaprì gli occhi i tre ragazzi erano sdraiati sulla coperta; Selma, le cosce aperte sporche di seme, improvvisamente alzò il viso verso il suo nascondiglio: sapeva che era lì, ne era sicuro; perché lei, sempre fissando in apparenza un punto indefinito della sterpaglia, si passò un dito sul sesso bagnato e poi lo mise in bocca succhiandolo a lungo.
All'improvviso don Paolo ricordò: quegli occhi gialli e striati li aveva già visti, erano quelli del demone disegnato nel Codex Gigas, il famoso enorme libro maledetto scritto nel 1100 in una sola notte da un monaco benedettino che si racconta avesse venduto la sua anima al diavolo dopo essersi macchiato di un orrendo peccato.

Si alzò sconvolto e cominciò a correre verso il paese, aveva rotto una promessa sacra, un giuramento, non era stato capace di far fronte al demone della lussuria e cosa anche peggiore ogni fibra del suo corpo,ogni cellula ora voleva Selma con una intensità mai provata prima.
Aveva fame di lei, una fame che aumentava man mano che si allontanava da quel prato maledetto vicino al lago.
Intuì che il demone aveva già vinto: in cambio di una notte con la ragazza lui gli avrebbe dato l'anima.
Si accorse con orrore di questo pensiero come se non fosse suo, partorito dalla sua stessa mente. Arrivato in canonica per prima cosa telefonò a Maricel e con una scusa le disse di non aver più bisogno di sua nipote.
Poi, ansante, affannato, sconvolto andò in chiesa per pregare, per ritrovare quella serenità che aveva sempre avuto, per ritrovarsi. Ma non servì a nulla: intorno a lui c'erano solo oscurità e freddo, gli ori, i quadri, l'altare, tutto gli era distante, gelido e lui era solo in mezzo a un deserto.
Quella notte fu insonne, la prima di tante; quando si addormentava per qualche ora finiva in in fondo a un pozzo nell'oblio più completo e misericordioso.

Ma una notte...
Aveva sentito da poco il campanile suonare la mezzanotte ed era caduto in un febbrile dormiveglia quando sentì un passo leggero su per le scale e una mano furtiva aprire la porta della sua camera.
Allora seppe che lei era arrivata usando la chiave di Maricel che la donna teneva per ogni evenienza.
Dalle persiane filtrava il chiarore della luna piena.
Sdraiato su un fianco il prete continuò a fingere di dormire, ma quando udì distinto un respiro affrettato non potè fare a meno di aprire gli occhi: nello specchio, che gli stava di fronte, a lato del letto, non vide riflesso nulla, solo un'ombra informe o almeno così gli parve.

Poi udì il fruscio del vestito e il profumo d'erba tagliata di Selma quando lei, con la levità d'una farfalla, entrò nel suo letto e si mise dietro di lui accogliendolo sulle ginocchia, premendogli il seno sulla schiena. Prese a carezzargli il volto, le palpebre chiuse, il naso perfetto, le labbra poi scese sul petto, sul ventre per insinuarsi nei pantaloni del pigiama e prendergli in mano il sesso, già eretto, pronto.
L'uomo sospirò, come vinto, arreso.
Si mise supino, allungò la mano, scrutò nel buio.
-Eccomi sono venuta, mi aspettavi vero? da quel giorno al lago non hai più avuto pace, lo so.
E neppure io, prega il tuo dio ora, pregalo, se ne hai il coraggio-
-Zitta, stai zitta- disse lui con voce sibilante e poi le fu addosso: le entrò dentro con furia , mordendole i capezzoli, soffocando nei suoi capelli, fino a che non venne con un grido di liberazione.
Ma era solo l'inizio.

Non poteva smettere di toccarla, baciarla, le sue dita, la sua lingua erano un vento senza pace. Per il resto della notte si divorarono a vicenda.
Poi lui piombò in un sonno di pietra, ancora sopra di lei.

Fu lo squillo del campanello, alle otto del mattino, a svegliarlo: per un attimo non capì nulla, poi cercò Selma e si rese conto che la ragazza era scomparsa, il letto in ordine, le lenzuola asciutte; ma allora se era stato tutto un sogno, il suo seme dove era finito?
-Dentro Selma- sussurrò una voce nella sua mente.
-Don Paolo, ma che succede, mi apra-
Era Maricel, come un automa finalmente si mosse.
Quando aprì la porta la donna sclamò con voce spaventata:
-Dio mio, ma lei sta male, che faccia che ha, si è preso l'influenza, venga subito a letto, chiamo il medico.
Fortunatamente sono passata, anche se sto in piedi per miracolo, venivo a dirle che mia nipote ha deciso all'improvviso di ritornare in Colombia: è partita ieri pomeriggio per Milano ospite di conoscenti. Da lì prenderà l'aereo.
Mi ha lasciato un ricordo per lei: questo portachiavi, l'aveva portato dal suo paese. Non è carino?-
Don Paolo allungò la mano e sul palmo si ritrovò, intagliato nel legno e perfettamente riprodotto, il demone del Codice Gigas che lo guardava sogghignando con i suoi occhi gialli striati di verde, da fiera.








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