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Racconto n° 2247
Autore: Erato Altri racconti di Erato
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RondòVeneziano
Mi ero regalata quel viaggio in laguna per staccare la spina da mesi di estenuante lavoro.
Letizia mi attendeva da tempo; ogni volta era stato un garbato declinare l'invito, per troppi impegni o troppa indolenza.
Finalmente avevo deciso.
Venezia si stendeva davanti ai miei occhi, lasciva come consumata maitresse e io godevo di ogni canale, di ogni solco che il remo infliggeva alle acque ferme.
Ed eccola Letizia, ferma ad attendermi tra i turisti di San Marco, nello spazio angusto che congiunge quel sestiere a San Polo per mezzo del capolavoro a intaglio di marmo che è Rialto. Si sporse tra le orde di turisti variopinti che affollavano la fermata del vaporetto, quel tanto che bastava a darmi un guizzo di nostalgia tra le gambe.
Quando mi strinse tra le braccia di zucchero mi chiesi come avevo fatto a starle lontana.
Ci raccontavamo le attese e i giorni mentre attraversavamo l'erbaria e ci inoltravamo per la calle degli speziali.
Nemmeno il tempo di arrivare in casa che il pavimento in cotto esagonale del palazzo, dall'anticamera al letto, fu un susseguirsi di scarpe, di vestiti, di borse dal contenuto rovesciato per la fretta su preziosi tappeti persiani, di calze di seta nera , di guepiere slacciate, per arrivare finalmente all'estro di quei corpi in affanno davanti al fuoco del camino.
Avevo conosciuto Letizia quando lui l'aveva lasciata come un pacco inutile al fermo posta di un locale del centro ed era stato subito groviglio di sensi, gli stessi che adesso esaltavano gli umori della laguna.
Letizia m'aveva preso forte, con l'audacia dei suoi pensieri di peccato senza peccato e in me aveva trovato riparo dagli uomini e dalla loro assordante presunzione di sapere amare.
Facevamo l'amore senza alcun fine che non fosse quello di annullare la mente dentro al turbinio delle nostre mani piccole e curiose; lei mi sapeva suonare come le corde di un'arpa e amava sentirsi dipingere dalle mie parole su tela.
Quel pomeriggio finimmo sfinite in un abbraccio ricolmo dei giorni passati.
Il giorno dopo mi annunciò con una punta di malizia a sorriderle in bocca che saremmo andate a festeggiare quei giorni insieme, in maniera del tutto inconsueta e che per l'occasione, coincidente col carnevale a Venezia, era in programma un ballo in maschera.
La guardai curiosa e lei capì cosa avrei voluto chiederle. - Nessun limite - rispose, intuendo i miei pensieri che tra l'altro conosceva bene come i suoi.
Il grande salone del palazzo, che era di Letizia da generazioni, risuonava ad ogni parola tanto era vuoto;le eleganti bifore lasciavano passare i raggi del sole; all'altra estremità della parete troneggiava il pianoforte a coda, pregiato come l'arazzo alle pareti raffigurante piazza San Marco.
Suona per me -le dissi - con lo sguardo già in fiamme per l'eros che sapeva sprigionare ogni sua nota.
Non se lo fece ripetere due volte, accordò per me, solo per me, il notturno di Chopin che tante volte aveva fatto da sfondo ai nostri amplessi. Letizia - ebbi il tempo di sussurrare... lei già mi aveva rapita e docilmente fatta sedere sui tasti d'ebano e d'avorio. Con maestria infinita mi aveva sollevato la gonna stretta; era rimasta seduta allo sgabello e da lì aveva continuato a suonare dentro me, con le sue mani bianche, con le sue dita sottili, con la sua lingua di velluto. Avevo chiuso gli occhi d'istinto, per gustarmi la vertigine di quel momento tutto nostro; li riaprii in tempo per vederla completamente perduta nel suo desiderio infinito di me, mentre risaliva con la bocca, audace e morbida come burro, lungo il ventre; nella frenesia di quell'attimo manteneva una calma apparente e sbottonava lenta i bottoni della mia camicia tesa allo spasimo; insinuava languore e dita sotto la sottoveste color crema, accarezzandomi piano, scivolando le dita sotto il prezioso macramé, fin sopra i seni bianchi. Mi deliziava di baci e di carezze e di parole che faceva partire piano dal centro del piacere e, estenuante, le faceva salire striscianti di lingua, fino ad arrivare alla mia bocca che desiderava solo scandire il suo nome, intramezzandolo a richieste sempre più inaccessibili alla ragione.
Dalle finestre aperte entravano i rintocchi del campanile di San Marco, cadenzato ossimoro dei nostri baci.

Il ballo in maschera.

Il brusio della grande sala degli specchi di Palazzo Zenobio percorreva le scale, imbandiva conversazioni lascive sulle dormeuse e sui divanetti in raso, lisciava le pesanti cadute di velluto sui finestroni enormi, insinuava peccaminosi pensieri fin sotto le gonne delle dame, dentro la Bauta asessuata, dietro le maschere ricamate da sottili tralci d'oro.
Entrammo in quella girandola di carne facendoci rapire dall'atmosfera settecentesca del contesto; Letizia era splendida cortigiana dai seni opulenti, strizzata dentro il corpetto verde salvia, sembrava esplodere lussuria da ogni laccio, da ogni malizioso merletto del ventaglio.
Aveva scelto lei l'abito che avrei indossato per il ballo a corte. Tra i tanti aveva preferito la sontuosa grazia di MariaAntonietta, l'ultima regina di Francia; forse per la sua presunta predilezione per madame Yolande de Polignac, forse per l'amore per il lusso di Versailles, di certo perché era l'apice, la vetta di ogni suo sogno proibito: lei così presa da queste figure delicate dalla pelle candida, graziose come le manifatture di Sèvres .
L'abito, a minuziose trame floreali su sfondo panna, contrastava perfettamente, nel candore quasi virgineo, con l'anima rossofuoco che mi apparteneva e con il colore dei capelli: quel rosso Tiziano che in passato aveva contraddistinto le cortigiane di Venezia .Li aveva acconciati lei stessa, lasciando che qualche ciocca sfuggisse maliziosa sulle spalle nude.
Aveva contemplato la sua opera all'enorme specchio che sovrastava la parete azzurra della camera, lo stesso che aveva rispecchiato per secoli le grazie carnali di altre donne, e di spalle aveva indugiato con la sua bocca, con la sua lingua lungo il collo.
- Sei bellissima - aveva detto in un soffio che sembrava cipria.
Quei baci bruciavano ancora di promesse non mantenute nel preciso istante in cui si presentò Bruno.


Gli occhi di malachite erano il biglietto da visita del diavolo in persona; trafiggevano insolenti i miei seni, i miei fianchi; sentivo che mi spogliava ad ogni sguardo, le sue mani pesanti sotto le gonne larghe ed ingombranti cercavano, cercavano...
In una sortita maliziosa, Letizia me lo presentò con un sorriso.
Bruno aveva la sfrontatezza degli uomini sicuri del loro potenziale seducente, usò parole melliflue come unguento, raffinate e promettenti.
Lo seguimmo in capo al mondo.
E l'altro capo del mondo era nell'ala opposta di quel palazzo austero che affondava le sue radici nelle acque scure della laguna.
Spinse i battenti laccati di verde a fregi d'oro e ci introdusse in un'anticamera che sembrava uscita da un quadro .
Sulla destra un'altra porta a due battenti, identica alla prima, introduceva nella grande camera dei padroni: al centro un enorme letto che poteva contenere i sogni proibiti di ogni era, annegato in una marea di cuscini a trame preziose. La luce fioca delle candele conferiva all'ambiente la raffinata atmosfera di un'alcova, di un boudoire d'altri tempi.
Fu un attimo e cadde ogni maschera. Bruno usava argomenti convincenti, avrei giurato che nelle sue vene scorreva il sangue di Casanova. Dopo qualche tempo che sembrò infinito eravamo sul grande letto a baldacchino, in un indefinibile arabesco di sensi attorcigliati come serpenti all'albero di mele. Letizia che amava sempre sorprendermi, rimase a bocca aperta nel vedere cosa avevo in serbo per lei.
Bruno sciolse i nastri dei miei capelli, mentre il suo corpo di lava aderiva alle mie spalle e fu una cascata di fuoco e di seta; sentivo il suo sesso duro spingermi contro, mentre montava il desiderio i lunghi nastri cinsero i polsi di Letizia che traboccava eros da ogni centimetro di pelle e fissarono le sue braccia alla spalliera del letto in legno intagliato. Finimmo di spogliarla a quattro mani: caddero le gonne, le sottovesti di seta, i lacci, ogni pudore; la carne bianca delle sue cosce, esaltata dalle sottili calze chiare che finivano in un malizioso pizzo, era un invito irresistibile per la mia bocca.
Mi piegai tra le sue gambe mentre Bruno accarezzava piano ogni mia curva morbida e dissetai ogni mia voglia a quella fonte inesauribile di delizia e di piacere che erano le sue labbra . Letizia era in estasi : le mani ansiose costrette all'immobilità, la sua bocca in esilio dalla mia, i suoi occhi condannati alla vista di quell'uomo che mi accarezzava, che mi sfiorava da dietro col suo sesso eretto, che mi avvolgeva in ginocchio contro il mio corpo inginocchiato su di lei, che mi sussurrava all'orecchio ogni sconcezza perché lei lo sentisse. Chiamava in un sospiro il mio nome, poi il suo; inarcava tutto il corpo per assaporare fino in fondo il dolce piacere della mia lingua che solcava ogni piega, che beveva ogni stilla, che giocava maliziosa, che leccava, che penetrava piano ogni segreto.
Pregò che arrivasse presto l'orgasmo, che finisse il supplizio di vedere, di sentire, di respirare il nostro odore senza poter toccare. Non era ancora arrivato il momento.
Doveva godere sì, ma solo con i suoi occhi. Anche quando lo avrei preso in bocca, quando avrei accolto lui e la sua smisurata voglia e lo avrei accarezzato con la mia lingua fino a sentirlo spingere in fondo alla gola. Staccai da lei i miei baci , continuai con le mani: un dito via l'altro ,uscivano implacabili da quell'umido nido per risalire lungo il ventre, contro i seni, a morire sulla bocca, dentro la sua bocca che li accoglieva insaziabile, ansiosa, al limite dall'esplodere dei sensi frenati troppo a lungo.
Bruno guardava estasiato ogni gioco, scorreva con la sua lingua contro la curva dolce della mia schiena che fremeva di brividi finché ormai rispose al richiamo imperioso della carne e mi fu dentro con l'anima .
Il turbinio di emozioni che seguì fu una catena osmotica di sesso a briglia sciolta: lui mi penetrava, io la penetrava; affondava i suoi colpi dentro me, mi riempiva del suo sesso e di mille parole sfrontate e sconnesse come le assi del pavimento; io affondavo la mia lingua dentro lei sempre più... sempre più... finchè il piacere esplose in mille frammenti di carne urlati, di bocche insaziabili, di desiderio bagnato di passione sfrenata, di confini indefinibili, di limiti cancellati in un attimo da una follia di mani. L'orgasmo di ritorno fu esplosione o implosione, fu onda che si da e si ritrae, piacere condiviso o solo preso o solo dato: Letizia godeva di me e sapeva che io godevo di lui, sentiva che lui con i suoi colpi aveva dato piacere a lei attraverso me.
Quando le liberai i polsi e lei fu libera finalmente d'accarezzarmi per ricominciare,per ricominciare a sentirmi sua, quasi non mi capacitavo di come avevo potuto fare a meno delle sue mani, delle sue dita a comporre armonie su tastiera di carne, per tutto quel tempo.

Erato

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