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Racconto n° 2274
Autore: Eva Blu Altri racconti di Eva Blu
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Innanzitutto le scarpe
Innanzitutto le scarpe.
Le scarpe sono fondamentali.
In certe cose si parte dal basso. Quando ti spogli cosa togli per prima cosa? Le scarpe.
Le scarpe devono lasciare vedere il piede, la parte forse più sexy del corpo, perlomeno per i veri intenditori, e quindi devono baciarlo nella forma affusolata, lasciando scoperto il collo del piede, fasciato da calze che non possono che essere autoreggenti e grigio-scure.
Il tacco sarà più a spillo possibile: anche se faticoso da portare in giro, dona, fa dondolare le parti giuste, quelle che nel corpo stanno più in basso e che attirano di più l'attenzione.
Il vestito.
Il vestito deve essere un tubino nero di quelli che ti mozzano il fiato, difficile da reggere, quasi impossibile da respirarci dentro, ma il sacrificio va fatto: se mozza il fiato a te, infatti, figurati a chi ti guarda.
L'intimo.
Se vesti nero, sotto dev'essere bianco. Rigorosamente bianco. Non tanga né perizoma, troppo volgari e allusivi: usa slip che lascino un po' scoperte le natiche, ma senza darlo troppo a vedere, altrimenti che piacere c'è nello scoprire le carte?
Il reggiseno no, bianco non può essere. Togli le bretelline e usalo dello stesso colore del tubino che indossi, cioè nero. Deve reggere, non sorreggere: dunque cammina con la schiena diritta, non fare cascare quel che ha l'obbligo di stare su.
E i capelli.
La frangia deve essere in ordine, cadere pari sulle sopracciglia, che devi sfoltire in modo da lasciare appena una strisciolina sopra gli occhi. Non esagerare con la lacca, lascia odore di insetticida se è troppa. Il capello corto è sexy, fa richiamo. Meglio corto, allora.
Il trucco dev'essere appena un velo. Appena visibile sugli occhi e il phard va sistemato come un'ombra sulle guance, sennò rischi la volgarità, di più: la banalità.
Scegli bene il rossetto. Disegna le labbra con la matita, poi metti un lucido dal colore non troppo acceso né troppo diafano.
Dev'essere un filo di rossetto.
La borsa.
Piccola va bene, purché contenga i documenti, qualche soldo, le chiavi di casa e il telefonino.
E ora vai.
Non dimenticare la giacca di pelle.
Indossala così, sulle spalle nude.
Senti il contatto con il freddo della fodera interna, prova quel brivido dolce di sentirti avvolgere da qualcosa di inizialmente gelato, ma che poi ti riscalda.
Ti scalda tanto.


Il seno.
Lo guardo allo specchio.
Mi tenta. Guarda com'è carino, penso. Capezzolo areola piccola pera o meloncino o arancia insomma forma soda piccolina ma consistente. Più o meno prima misura. Magari seconda, dai.
Lo tocco sotto la doccia.
Lo sento reagire. Capezzolo che si indurisce, piccolo bottoncino che diventa dritto al contatto con le dita. Lo sfrego, lo palpeggio, lo massaggio. Cresce. Ora è rigido. Ci giocherello con i polpastrelli degli indici, mi diverto ad avvitarlo e poi a svitarlo, aiutandomi anche con le estremità dei pollici. Pollici e indici che avvitano e svitano il desiderio.
Insopprimibile desiderio.
È bello.
Mi piace. Mi piace tanto, non lo nego.
Il seno è la prima cosa che guardo nelle 'altre'. Le valuto da quello, da quanto l'hanno grosso, alto, basso, caduto, penzolante, capace di stare su da solo, senza rifarsi o senza sostenersi con criss cross, balconcini, ferretti e altri ritrovati che fanno un po' da doping mammari.
Carino, il mio seno.
Sono ancora lì che lo guardo e lo tocco, non so resistere. Piccolo ed essenziale, dolce e sensuale. Lo stringo nelle mani aperte, mi guardo di profilo.
Oggi è cresciuto, penso. È gonfiato un altro po'. Ieri chiudevo le mani e mi stava tutto dentro, dico tra me, oggi c'è un micromillimetro di polpastrello in più.
È cresciuto, è cresciuto ancora.
Un micromillimetro al giorno, in uno, tre, sei mesi, dieci anni quanto diventa?
I fianchi.
Ho un po' di ciccia, non lo nego.
Però mi guardo di lato. E ora di davanti. Guarda la larghezza. Non è solo ciccia. Non sono solo 'maniglie'.
Sono fianchi larghi.
Come il sedere.
Ti va di chiamarlo culo, Rò? Volgare, non va. Va bene, chiamiamolo didietro. Oppure dividiamolo in due e chiamiamoli glutei. Natiche no, sa di caserma, di punizioni corporali. Però dai, gluteo sa di anatomia. Insomma, chiamalo come vuoi, Rò, chiamale chiappe, no è pure volgare, allora va bene didietro.
Quella parte del corpo, beh, forse è la mia parte migliore.
Anche se a me piace di più il mio piccolo seno.
Il sedere lo dondolo proprio bene. Sarà il modo di camminare, sarà che è rotondo, sarà che so come mettermi a sedere sul sedere – perdona il bisticcio – ma lasciatemi dire che ho veramente un bel culo.
E le gambe!
Lunghe, affusolate, slanciate. Magre nei punti giusti, più consistenti nella parte superiore, cosce attaccate perfettamente al sedere, carne distribuita col bilancino.
E quando accavallo le gambe, beh... In quei momenti si può anche perdere il controllo.
Ci so fare. Come, se non ci so fare.
Ci voglio saper fare.
Il mio piccolo seno.
I miei fianchi larghi.
Il mio sedere rotondo.
Le mie gambe lunghe.


Vorrei essere te, Rò, dici all'improvviso.
No, che hai capito, non è che ti invidio, aggiungi. No, davvero.
Vorrei essere te, ogni tanto, per toccarmi un po' dappertutto. Cioè per toccarti liberamente il seno, i fianchi, le cosce e – lasciamelo dire – quel gran bel culo che ti ritrovi. Ma tu, Rò, non te li tocchi mai, intendo il culo, le cosce le tette? Dai, che te li tocchi...
Rimango in silenzio per trenta secondi a guardarti.
Ma certi pensieri da dove ti vengono in testa, in quella testa bionda, con quegli occhi verdi, diamine sei proprio un bel ragazzo, ma certi pensieri.
Apro bocca, finalmente. È subito una smentita.
Ma che dici?, balbetto. Ehi, Giò, ci sei? Sei sicuro di stare parlando con me?
Sei sicuro, dici.
Che fai, mi tocchi?
Dai, smettila.
Sei ridicolo, Giò. Posso chiamarti Giò? Non ti avevo mai chiamato Giò, in effetti.
Giò e Rò ci si chiamano gli innamorati, è vero. Scusa, Giò, ehm, Giovi, insomma Giovanni.
Siamo seduti da due ore, Ovidio, Tibullo, Virgilio, ma tu ritorni sempre con Petronio.
Ma che avrà di tanto bello questo Petronio? Agli esami non ce lo chiedono, è secondario, anche un pizzico scandaloso.
E dai che fa caldo, smetti di toccarmi, Giò.
Ti ho chiamato di nuovo Giò. Quando mi tocchi ti chiamo Giò, come gli innamorati? Hai ragione. Un po' hai ragione. Scusa, Giò.
Petronio e il Satyricon.
Ma tu ce la vedi la prof che alla maturità ci chiede di questo Petronio.
Gli piacevano i fanciulli, guarda cosa c'è scritto qui.
Ma che porco, Giò – e cavolo ti ho chiamato ancora Giò – davvero un bel porco, un pervertito questo Petronio. Chi glielo doveva dire, quando duemila anni fa scriveva questi bei versi, che un giorno sarebbe stato studiato e vituperato da noi per le sue insane passioni, giovinetti, ragazzini, ragazzi con le mammelline da latte, c'è scritto proprio così. Oggi c'è la pedofilia e l'antipedofilia. Sarebbe in galera, questo Petronio, Giò.
Ancora Giò.
Smettila, Giò.
Mi tocchi sempre, ogni volta che studiamo assieme, mi tocchi dappertutto polipo piovra tentacoli, ma insomma si può sapere cosa ci trovi di tanto bello e poi oggi stai esagerando.
Passo il tempo a scostarti la mano che indugia sulla mia coscia, a respingerti se tenti la scalata dal mio ventre sino al petto, a tenerti lontano dal mio didietro, Giò.
Dici che mi piace? Ma che ne sai? E non ti senti ridicolo, strano, perché finché scherziamo va bene, dai... però senza esagerare.
Perché poi, Giò, se diventa una cosa seria allora c'è da preoccuparsi.
E sì va bene ti ho chiamato ancora Giò, ma che c'entra tutto questo col fatto che mi piace? Ho forse detto che mi piace? No, non l'ho detto e se ti chiamo Giò non è perché mi piace, cioè non deve essere per forza così, non essere inquadrato, sii critico, dai leggiamo Catullo.
Che stai facendo?
Sì, lo sento. Mi hai preso la mano e me l'hai messa lì. Su di te. Sul tuo coso. Lo sento sotto la mano, mica ce l'ho insensibile, senza energie, la mano.
E va bene, devo riconoscerlo: lo hai duro, durissimo.
Sei eccitato. Direi che ci può stare, Giò.
Dai, non costringermi. Non tenermi il polso così forte, Giò, mi fai male.
Okay, ti tocco. Ti tocco senza costrizioni.
Guarda quanto sei bello duro. Vuoi detto questo? Te lo dico! Duro, gonfio, forse anche lungo. Direi anzi sicuramente proprio lungo. Quanto lungo? Venti? Ventidue? Ventidue davvero? Però!
Che uomo! Hai appena diciannove anni, sei mesi più di me, e te la cavi proprio bene, Giò.
Va bene, ti chiamo Giò perché mi piaci.
Vuoi detto questo?
Te lo dico. Mi piaci. Sei il mio tipo.
Sei bello, Giò.
Ti desidero, Giò.
Che silenzio.
Non mi guardare così, mi fai star male, Giò.
Va bene, mi è scappato.
Sei bello Giò me lo potevo risparmiare. Anche ti desidero Giò.
Non lo dico più.
Torniamo a Ovidio. Ti prego.
A Tibullo. Anche a quel pervertito di Petronio, a chi vuoi tu ma cambiamo discorso.
Ti prego.
Invece ti lascio fare, Giò.
Smetto anche di parlare.
Mi tocchi, Giò. Mi stai toccando le mammelle. Toccami. Mi piace, Giò, inutile continuare a giocare a nascondino, con te che ogni giorno scopri qualcosa di nuovo su di me.
Toccami. Toccami, Giò.
Mi piacciono le tue mani che indugiano a massaggiarle, mi piace il movimento leggermente rotatorio che imprimi alle tue palme che si riempiono della mia carne soda, mi piacciono i tuoi polpastrelli che pizzicano i capezzoli.
Ma io tutte queste cose non te le sto dicendo, Giò.
Non te le dico perché non è necessario e poi tra di noi è calato il silenzio, un silenzio rovente, bollente, incandescente.
Non parlo più, Giò. Sto solo pensando, ogni tanto oso alzare gli occhi verso i tuoi, li incrocio, ti parlo senza aprire bocca.
No, davvero non ce n'è bisogno, Giò.
Mi stai palpando le tettine in piena libertà. Non ti respingo più, non ti dico più di no, non mi muovo proprio più. Sono immobile, incapace di scostare un muscolo e tu lì, ormai senza opposizioni, massaggi, mugoli.
Mi baci.
Un bacio sulla guancia destra.
Sono dolce, mi dici.
Mi metti una mano su di un fianco, mi carezzi leggermente e mi poggi un altro bacio delicato, sulla guancia sinistra. Subito accanto ce ne metti un altro e un altro e un altro ancora.
No, baci no.
Baci no e mi alzo di scatto, scusa Giò, scusa ma non mi va.
Ma dai non ti va e però fino a un attimo fa...
Giusta, giustissima osservazione.
Ma dobbiamo riflettere. Stiamo un attimo fermi, per favore. Solo un attimo.
Va bene, stiamo fermi ma siediti qui, siediti sulle mie gambe, dici. Parola mia, non ti sfioro, però siediti, siediti un attimo qui.
No dai, proprio lì no, dai Giò, per favore Giò.
E invece mi siedo. Sulle tue gambe, mi siedo.
Un'autobotte piena zeppa di benzina che si siede su un altoforno.
Non devi nemmeno spingere, premere, tirare troppo. Mi siedo e basta. Stai ai patti, le mani le tieni bene in vista, come nei film americani durante i duelli tra cow boy o quando ti ferma la polizia.
Adesso sono io che fremo. Io che sento la tua carne sotto di me, come non l'ho sentita mai, finora.
Non riesco. Non posso. Non devo.
Mi muovo per sentire meglio il contatto, tu capisci e dici semplicemente posso?
Posso?, dici, e appoggi una mano su un fianco, tra l'ombelico e la costola, senza sfiorare la mammella nemmeno da lontano.
Posso?, insisti, e hai una faccia che è dolce, Giò, troppo dolce e io non resisto più, Giò, perché io ti amo, Giò, ti amo da sempre, ti amo dal primo momento che ti ho visto, ti amo e non so perché e nessuno me lo saprà spiegare mai.
Dovrei recitare, dovrei continuare a resistere, dovrei alzarmi scappare andare via uscire e invece ti bacio, ti bacio in bocca, senza lingua ma ti bacio, labbra contro labbra ti bacio e le tue labbra sono calde e umide come le mie che non ho mai baciato nessuno e che non ho mai desiderato nessuno come desidero te in questo momento.
Tu resti interdetto, puoi dire tutto meno che te l'aspettavi e allora reagisci. Non chiedi più permesso, mi ghermisci, ti impadronisci di una tetta e adesso non la massaggi più dolcemente, l'altra mano la infili di dietro sul didietro, da sotto sul di sotto, acchiappi una chiappa, la carezzi con voluttà e poi la insinui. La metti sotto, la mano, mi sollevi leggermente, la tua mano è lì, tra i glutei natiche chiappe insomma proprio sotto il mio sedere e io mi sento come mai avevo provato prima.
Il cuore pulsa forte, sento il bisogno di sollevarmi un altro po', tu ti incunei meglio e la mia tetta sinistra si ritrova a contatto con la tua bocca.
Mordi. Mordi la camicetta, lieve e leggerissima, un velo appena perché fa caldo. Mordi senza mordere, tieni in bocca la mia tetta, ma c'è quel dannato tessuto e allora strappi via dai jeans la maglietta, la tiri su con forza e finalmente sei a tu per tu con lei, la mia mammellina nuda, nudissima, eccitata, col capezzolino turgido turgido.
Resti un attimo a guardare. Guardi lei poi me poi lei poi di nuovo me.
Ti sorrido. Che sorriso.
Le gote sono paonazze, le tue come le mie. Come distinguere la vergogna dalla partecipazione, la malizia dal trasporto, dal desiderio, dalla voglia.
Vai, Giò.
Mi lecchi mi baci mi slinguetti mi succhi mi mangi mi mordi mi bevi mi fai male ma mi piace, quanto mi piace, mi piace e lo grido, mi piace, mi piace, continua continua continua ti dico senza più freni. Toccami di sotto, di sopra, fammi quel che vuoi, basta fingere, basta frenarsi sono anni che ti desidero, sono anni che volevo che me lo facessi, e allora fallo e continua continua continua e toccami, toccami anche tu dove vuoi, come vuoi, senti come sono profumate e per chi credi che me le lavi con tanta cura e per chi credi che ci metta la crema e il deodorante speciale e il profumo e per chi credi che faccia quei dannatissimi dosaggi ormonali per farle crescere crescere crescere ancora nonostante i problemi le paure la psiche in pezzi e per chi credi che mi depili da cima a fondo, sì da cima a fondo...
Accidenti, dove siamo... sul tuo letto siamo piombati ma come ci siamo finiti un attimo fa eravamo seduti ora io sono spalle sul materasso, impossibile muoversi perché comandi tu senza nemmeno schiacciarmi, è solo la tua lingua che mi tiene immobile, la tua lingua che lecca lecca lecca e mi piace mi piace mi piace, mi piace perché mi tocchi lì sotto mi tocchi il didietro mi pressi proprio dove i glutei le natiche le chiappe si incontrano si stringono e io li tengo larghi larghi e tocchi pure più su.
No, Giò.
Ti fermi.
Se non vuoi non vado avanti, dici.
Un attimo di sospensione, di nuovo il silenzio bollente, di nuovo gli occhi che incrociano gli occhi, i respiri che ansimano nei respiri.
Ti avvicini.
Sei troppo vicino.
Troppo, Giò.
Troppo e il tuo respiro è sul mio, la tua saliva è sulla mia, la tua bocca è sulla mia, la tua lingua entra senza ostacoli tra le mie labbra, gira attorno alla mia lingua, la riscalda, la assaggia, la avvolge.
È morbida, deliziosa, la tua lingua.
E in quel momento, in quello stesso, preciso istante godo nelle tue mani.


Roberto non puoi più chiamarti Roberto.
È matematico, matematico, aritmetico.
Tu mi desideri, ma non come Roberto. Io lo sento, tu mi vuoi come donna, tu sei una donna, tu per me sei Roberta. Per non crearti troppi casini all'inizio ti chiamerò Rò, ti va bene? Ti va bene? Mi senti? Rò?
Sono due ore che parliamo. Che choc, Giò. Come si regge una cosa del genere? Mai avrei pensato di essere capace di mollare di schianto in questa maniera.
Mai.
Eppure ho ceduto.
Così, senza ritegno. Resa incondizionata. Debellatio, si chiama. E fa rima con un'altra parola latina.
Fellatio.
Sì, perché ho goduto nelle tue mani, Giò, con te che mi spremevi lì sotto, senza spogliarmi ma toccandomi nei punti e nel modo giusto. E poi siamo rimasti lì, distesi sul letto. Fermi come stoccafissi, silenziosi come pesci sordomuti. Tu a respirarmi accanto, quasi nell'orecchio.
Roberta, Robertina, hai cominciato a sussurrarmi, mentre mi carezzavi e mi carezzi ancora adesso il seno nudo. Roberta amore, Roberta gioia.
Dai non sentirti in colpa, Roberta, è stato bello e ci siamo fidanzati, mi dici.
E allora mi sono sollevato, scusa, mi sono sollevata – perché da questo momento in poi ho cominciato a parlare di me al femminile e tu hai fatto lo stesso – e ti ho sorriso.
Nemmeno tu devi sentirti in colpa, ti ho detto, non sei mica frocio se hai baciato e masturbato un altro maschio. Perché io non sono, non mi sento maschio, quindi tranquillo, non hai baciato un altro maschio, la tua virilità è salva, perché lo so che ci tieni e anch'io ci tengo sennò che me ne farei di una checca?
In te cerco un uomo, Giò. Voglio un uomo, voglio te. Lo voglio da donna.
Non posso farci niente ma non potevo ammetterlo, fino a poco fa non potevo, perché adesso la mia vita cambia, cambia tutto perché l'ho fatto, ho rotto il ghiaccio, ho liberato i miei veri istinti, i miei sentimenti naturali e ora posso dirti che sì, Giò, quando sono sola sola sola mi trucco e indosso biancheria intima femminile e abiti femminili e non mi basta più rubacchiarli qua e là – sorelle, cugine, persino la donna delle pulizie, la badante della nonna – ma ho comprato di nascosto, di nascostissimo, lingerie mia, qualche vestitino mio, calze, collant e autoreggenti miei, trucchi e rossetti, persino un paio di scarpe della badante polacca, un donnone che porta il 40 e le ho provate e mi stavano. Gliele ho rubate, erano pure sexy le ho fatto trovare i soldi per comprarsene altre tre paia e gliene ho rubato un altro. Forse ha capito, ma me ne frego.
Mi accorgo che mi guardi estasiato.
Ho voglia di baciarti di nuovo e stavolta ti bacio senza problemi, con passione, con foga.
Mi travesto e prendo ormoni per fare crescere il mio seno, Giò, tettine che ti piacevano, ti sono sempre piaciute e che già di per sé erano grossette, più grosse del normale, mi depilo e faccio un trattamento per cancellare la barba, che ne ho sempre avuta poca.
Sì, Giò, però non ho il coraggio, non ho la forza di andare in fondo, non potrei mai dirlo a casa, non capirebbero, non lo capisco nemmeno io.
Fellatio.
Ti voglio, mi dici. Lo desidero tanto, sussurri, voglio che me lo prendi in bocca.
Resto un attimo senza sapere che fare, perché tu stai fermo, sai dire solo ti prego, fammelo, fammelo adesso, fammelo subito.
E io che devo fare? Da dove si comincia?
Tante volte, Giò, non sai quante, ho sognato di succhiartelo, di spupazzartelo, di baciartelo, ma ora che siamo lì lì non so come si fa. Non ne ho la più pallida idea.
Lo vedo che pressa, lo vedo quant'è grosso sotto i jeans, lo intuisco percorrendolo con la mano per la lunghezza e la durezza.
No, non così, mugoli, non così, aspetta.
Ti tiri su, fai uno sforzo. Temi l'eiaculazione, sei troppo eccitato, in fondo siamo in intimità da un pomeriggio intero, è pure comprensibile.
Slacci la cintura stando in piedi davanti a me, sfibbi il bottone, tiri giù i pantaloni.
Che odore. Odore di maschio. In condizioni normali mi sembrerebbe puzza e invece è odore di uomo. Lo slip rosso ti separa da me e io, imbranata, non so ancora che fare.
Finalmente lo scosto. Con grande delicatezza, perché temo di farti male. Eccolo, davanti a me. Eretto, pare guardarmi, è semiscappucciato e io lo scappuccio tutto.
Ti piace, mi chiedi. Mi piace, rispondo.
Lo tocco ancora. È duro. È carne grossa, soda, è carne di uomo.
Faccio per menarlo.
In bocca, miagoli, in bocca, prendilo, presto. Presto.
Mi accosto a te. L'odore è sempre più intenso.
Ti sento sussultare.
Le tue mani si piantano sulla mia testa.
Prendilo, amore, prendilo, Rò.
Rò.


Ho finito la doccia. Il vapore mi sta pomiciando come un matto, anche lui dopo Giò. Mi ricopre, dà alla mia pelle un aspetto lucido, fumante. Acchiappo una crema rassodante di sua sorella, me la passo sui glutei natiche chiappe sedere e poi sulle tette. Poi trovo un'altra crema che profuma: è vaselina, bella, dolce leggera vaselina, me la spalmo e ora mi guardo allo specchio.
Il seno.
Mi sento bonissima. Irresistibile.
Mi balena un'idea, un'idea che mi sembra fenomenale.
Lui è di là che cerca di recuperare il tempo perduto, legge Tibullo Ovidio Catullo e Petronio, quel dannato pervertito più pervertito di noi, io perdo tempo in bagno e lui non fa caso a me. Staremo da soli stanotte, i suoi hanno telefonato che restano fuori per il week end, ho chiamato casa e ho detto che resto a dormire da Giò, proprio così gli ho detto, Giò e mentre ancora parlavo con la badante polacca, lo stavo baciando con la lingua che mi è sembrata una cosa fantastica, da ragazzina vera, slinguettare con il mio fidanzato mentre la badante stava cercando di rispondermi in qualcosa che somigliasse alla mia lingua, io la mia lingua la tenevo nella bocca del mio amore, maschio come ero io fino a due ore fa, perché adesso sono, mi sento, voglio essere femmina.
Voglio essere sua stanotte.
Vestita da femmina.


Il seno.
Lo guardo allo specchio e mi tenta. Come i fianchi, il sedere, tutto di me mi tenta.
Voglio provare, mi dico. Voglio. Esco dal bagno nuda come un verme: mi vedesse qualcuno, di schiena, difficilmente capirebbe chi e cosa sono in realtà. Lui mi chiama, mi dice qualcosa da lontano, non sento. Non preoccuparti, amore, gli rispondo. Faccio in un attimo.
Cerco. Vado a caccia.
Innanzitutto le scarpe.
Sua madre è alta, non soffrirò tanto se metto le sue scarpe numero 39. Guarda un po', ne ha un paio proprio sexy, di raso, col fiocco. E i tacchi a spillo. Così posso ancheggiare come una puttanella, mi dico.
Rovisto nei cassetti. Calze, cerco. Eccole. Autoreggenti nere, da strafiga, morbidissime, vellutate.
Un vestito. Nell'armadio fra i tanti vestiti c'è un tubino nero 44-46 a me che sono una 46-48 entrerà? Meno male che sua madre è relativamente robusta, dico. Però guardala, che bel vestitino: è elasticizzato, mi va di certo, veste grande.
Giò mi dice ancora qualcosa, da lontano, ma sono troppo impegnata, infervorata, forse proprio infoiata.
Risento in gola il sapore dolciastro del suo piacere. È stata una cosa sporchissima, penso per un attimo, ma poi mi dico che è stato magnifico. Voglio farlo ancora.
Ecco: le calze, le scarpe, il vestito. La lingerie. Ecco le mutande bianche, di quelle che ti lasciano scoperto mezzo sedere. E il reggiseno. Nero, di sua sorella, che ha due tette mignon, appena più grandicelle delle mie.
Ho sognato tante volte di travestirmi per qualcuno. Mi sono atteggiata da trans, sono stata transgender in privato decine di volte, ma mai ho avuto il coraggio di infilare la porta una volta trasformata.
Adesso devo trovare il coraggio.
Mi chiama ancora, ma che stai facendo, percepisco, però ho finito la perquisizione nelle stanze delle donne di casa sua, afferrando anche una giacca di pelle per poi improvvisare uno spogliarello.
Filo di nuovo in bagno, mi vesto di corsa, mi trucco. Un filo di phard, fondotinta, la matita per gli occhi, ci metterò anni per imparare, guarda che sgorbio, la matita la uso pure per disegnare le labbra... Il rossetto, manca solo il rossetto, sta qua. Così non appare niente o quasi, ce ne metto ancora.
Un filo, ce ne metto.
Il profumo, dimenticavo il profumo. Una spruzzata veloce.
Sono pronta. La giacca, la giacca di pelle. I capelli! Ma come ho potuto dimenticare i capelli? Una vera donna non li scorderebbe mai.
Li sistemo, uno spruzzo di lacca.
Esito. Esito ancora.
Riuscirò a varcare quella porta. Ci riuscirò. Stavolta sì.
Finalmente sono fuori.
Sorrido, sono felice. Eccomi.
Eccomi, Giò.


Suo cugino sta lì, ritto, impalato e quando mi vede sul volto gli si disegna un'espressione che non so definire.
Non ci riuscirei mai, perché figurarsi la faccia che devo avere fatto io.
Ecco cosa mi diceva Giovy, ecco cosa cercava di dirmi. Tutto poteva immaginarsi, meno che mi stessi travestendo per lui, che per la prima volta facessi la transgender per una persona diversa da me stessa. E invece gli spettatori diventano inaspettatamente e dannatamente due.
Giovanni resta anche lui con una faccia che penso si vorrebbe seppellire di corsa sotto il tappeto, tra le mattonelle, dentro il water.
Roberta, mi dice cercando di mantenere la calma, questo è mio cugino Fabrizio. Fabrizio, lei è Roberta.
Fabrizio sorride. Macché sorride, ride apertamente, di gusto. Si vede lontano un chilometro che ha capito. Sono carina, femminile, eterea, diafana, ma ancora non sono una donna.
Si avvicina, il cugino, mi fa il baciamano.
Bella manina, gentile, mi dice nell'inchinarsi e nel prenderla nella sua.
È un figone, Fabrizio. Giò è carino, questo è proprio bono: unoeottantacinque almeno, bruno, occhi verdi ma quelli sono di famiglia. È più grande di almeno cinque-sei anni. Somiglia tanto a Giò. Ma io mi sento sepolta da una tonnellata di letame. Che figura di merda, penso, non ne posso uscire. Giovanni, lo vedo, lo percepisco, lo avverto, mi odia, mi butterebbe dalla finestra.
Sei carina, Roberta.
Lo dice così, Fabrizio, con semplicità. Forse è anche sincero. Sei veramente carina, ti trovo sexy.
Non sfotte, probabilmente. Lo sguardo pare interessato, incuriosito.
Va bene, vado. Vi saluto, dice e Giò lì a trattenerlo e io quasi lo ammazzerei, ma che fa, lo fa rimanere?
Resta con noi, facciamo portare la pizza anche per te, dici e mi guardi come per dire l'hai voluto tu.


La pizza sarebbe buona, ma io non ne ho proprio voglia e non la tocco. Solo un pezzetto. Però sto ritta a tavola, i gomiti alti, una gran signora. Che portamento. Sembra che io sia nata donna. E in effetti è proprio così.
La giacca di pelle me la sono tolta, sono rimasta con le spalle nude, Fabrizio ha alzato il capo due volte per guardarmi, Giò sta lì per i fatti suoi, come se fosse altrove.
Vado a fare una doccia, dice a un tratto e io lo cerco con gli occhi, vorrei fulminarlo, ma sparisce in un battibaleno, si immerge nel bagno che ancora è profumato da creme e belletti che mi sono messa io.
Le scarpe numero 39 mi sembrano insostenibili trampoli, Fabrizio si offre di aiutarmi a sparecchiare.
Devo dire qualcosa, ma farei meglio a tacere. Invece la bocca mi si apre da sola, era uno scherzo, dico, mi sono travestito per fare uno scherzo a tuo cugino, lui non è come pensi, non è ricchione, è un maschio vero.
Ma quanto sono imbecille. Mi incarto da solo, o devo dire da sola? Comunque mi incarto e basta.
Fabrizio mi guarda interessato.
È vero, dice. Giovanni non è ricchione. L'unico ricchione, scusa se te lo dico, mi sembri tu.
Rimango zitta, interdetta, schiantata.
Si accorge che il colpo è stato duro.
Scusa, mi dice, ma devo dire che in ogni caso stai proprio bene vestita così. Ti travesti da molto? Lo fai in pubblico? Esci così? A casa tua lo sanno?
Terzo grado.
Ma che vuoi sapere, rispondo infastidita.
Davvero, insiste Fabrizio. Mi piaci sul serio, sei bellina, tenera.
Me lo vuole dimostrare a modo suo. Mi fa una carezza, dolce, con due dita mi percorre le guance, prima la destra, poi la sinistra.
Ceffone.
Brusco risveglio.
Lo guardo terrorizzata.
Altro schiaffo.
Brutta puttana, dice. Pervertito di merda. Mi insulta, me ne dice di tutti i colori, il trucco mi cola giù con le lacrime, mi afferra per i capelli dalla nuca, mi costringe a mettermi in ginocchio.
Adesso me lo succhi, ringhia. Meriti solo questo: me lo succhi, troia.
Me lo ritrovo lì, a un palmo dal naso. Di nuovo odore di maschio, ma lui profuma proprio. Forse aveva un appuntamento, si è messo profumo lì sotto, dove adesso sto succhiando, tenendolo in bocca e menandolo con foga avanti e indietro.
Succhia, succhia, dice ancora e ogni tanto mi allontana da sé e mi dà un altro schiaffo, ti insegno io, dice, ti insegno io a fare la troia con mio cugino piccolo, razza di finocchio.
Scoppio a piangere.
Finocchio no, ti prego. Finocchio no, imploro. Non sono finocchio, non sono un pervertito, sono una persona che soffre, che soffre soffre soffre tanto tanto tanto tantissimo.
Piango, non riesco a fermarmi. Lui non mi picchia più. Gli faccio pena. Mi prende per mano, mi mette sul divano, mi porta un bicchiere d'acqua.
È un estraneo, uno sconosciuto, ma gli racconto tutto di me d'un fiato, in pochi minuti abbiamo fatto pace, parliamo e mi sembra normale, normalissimo quando gli poggio la testa sulla spalla.
Di nuovo quel profumo.
È tutto profumato, è bello, è sexy.
Un attimo di rapimento.
Più di un attimo.
Mi poggia un bacio delicato su una guancia, poi mi cerca la bocca, ma mi mordicchia il mento, me lo succhia, me lo lecca, mi bacia con la lingua. Bacia stupendamente.
Voglio scoparti, dice, e non ha finito di dirlo che mi trascina, con i miei tacchi a spillo che mi fanno vedere le stelle anche per pochi metri, mi porta in camera da letto, su un lettone vero, matrimoniale, quello dei suoi zii.
Ma che fai, gli dico, e Giò, che dirà Giò?
Che te ne frega, risponde, che te ne frega? Se parla dico tutto a suo padre e a sua madre e intanto si spoglia, è già senza scarpe e senza calzoni, con i boxer bianchi a fiorellini blu, profumati, quanto profuma Fabri.
Il vestitino della madre di Giò vola via in un istante. Resto con le autoreggenti, gli slip bianchi, il reggiseno nero.
Hai le tette, osserva, ehi le tette ce le hai sul serio, ma brava ma come hai fatto? E intanto le tocca, le bacia, ci gioca, le lecca, tenendomi lì inchiodata sotto di lui, distesa sul letto, un letto vero, con le lenzuola che profumano di pulito, come la sua bocca, come il suo sesso.
Mi bacia a lungo, è muscoloso, i pettorali sono nudi e lisci, gli addominali forti, la sua mano scosta lo slip bianco, si insinua, tocca il mio piccolo coso, va più giù, si incunea fra le chiappe glutei natiche didietro, mi fa sussultare.
Mi fa male.
Hai ragione, dice, e tira fuori il dito e se lo infila in bocca e me lo infila in bocca e me lo fa leccare a lungo, ciucciare, lo chiama, e fa cambio di bocca, dalla mia alla sua, dalla sua alla mia, fino a quando mentre ho gli occhi chiusi perché lo sto baciando e sto sognando di essere sposata con lui con l'abito bianco e i paggetti, fino a quando non sussulto di nuovo perché mi ha violata con il dito che mi stava facendo leccare fino a un istante prima.
Aspetta, mi dice, ti fa ancora male, e si alza, aspetta, ripete, e chi si muove, sono tutta ansimante e quasi non mi chiedo più dove sia finito Giò o solo Giovy o Giovanni, che – lo sento – si è vergognato di me e forse è scappato e suo cugino invece è a letto con me, e riecco Fabrizio, riprende a baciarmi e poi senza dir nulla me lo ridà in bocca, stavolta senza picchiarmi, ché non ce n'è bisogno.
Me lo tira fuori dopo cinque minuti buoni, riprende a baciarmi, sente il sapore del suo sesso dalla mia lingua e intanto ricomincia a toccarmi lì sotto, il coso, il didietro e stavolta mi sembra lieve lieve. Mi accorgo che il suo dito entra senza farmi male.
La vaselina.
La vaselina di poco fa, quella che mi sono passata sul corpo.
Adesso ti farò di nuovo un po' male, dice guardandomi tenero negli occhi, mi dispiace, aggiunge, ma alla fine ti piacerà.
Indossa un profilattico, inizia a penetrarmi. È esperto, si vede. Mi tiene a gambe larghe sotto di sé. Sto con la schiena poggiata sul materasso, mi viola piano, mi fa male lo stesso.
Ti piace, dice, ti piacerà. Mio cugino è ricchione, sono sicuro che non ti ha scopata e invece tu sei una femmina in calore, vai scopata.
Ma dov'è, dov'è Giò?
Non mi pongo nemmeno il problema, in realtà.
Ho venticinque centimetri di carne, almeno, che pressano dentro la mia carne.
Mi fai male, Fabri, mi fai male, un male cane, gli dico, ma se ti fermi giuro che ti restituisco gli schiaffi di poco fa.
Fabri non si ferma. Spinge, va avanti e indietro, mi fa sentire in un altro posto, in sala travaglio, vorrei tanto fare un figlio, vorrei sentire una vita che sgorga dalla mia vita e invece sono prigioniera, prigioniera in un corpo di uomo, aggrappata con tutte le mie forze a ricevere un altro uomo, ad artigliare per il dolore e per il piacere le lenzuola e il piumone di due persone che conosco appena, i genitori di Giò, il mio fidanzatino, il ragazzo cui poco fa ho detto che l'amavo, che lo desideravo, che lo volevo ed invece eccomi qua a farmi possedere da un altro, nemmeno due ore dopo avere fatto sesso – per la prima volta nella mia vita – con lui, con Giò.
Aspetta, girati, mettiti alla pecorina, mi dice Fabri ed eccomi carponi, a quattro zampe, lo ricevo di nuovo e lui mi sbatte tenendomi con forza per i fianchi, che fianchi larghi che hai, dice, è per farmi sbattere meglio, rispondo io come fossi il lupo di Cappuccetto Rosso, macché lupo, sono un agnellino, anzi un'agnellina, meglio una pecorella docile docile.
Mi fa male e grido, cambia di nuovo posizione, si siede e mi fa sedere sopra di sé.
Giò spunta dal nulla, arriva in silenzio a guardarmi mentre suo cugino mi penetra standomi di sotto, mentre il mio coso sta colpevolmente eretto per un'eccitazione incredibile che mi pervade così come Fabrizio mi invade con il suo sesso.
Non mi piace che mi guardi così, Giò, non mi piace quello sguardo come a dire bella puttana che sei, però in fondo lo trovo molto coinvolgente, intrigante, e ci do dentro anche per te che fai da spettatore, mentre Fabri mi tiene per i fianchi e mi fa fare su e giù.
Vengo, dice all'improvviso. Vengo e istintivamente mi afferra il mio piccolo membro e comincia a menarlo, è altruista, vuole godere con me.
Non vedo più Giò.
Non lo vedo ma non mi importa. Fabri sta godendo dentro di me, io godo appresso a lui e Giò...
Sento le labbra di Giò all'improvviso, le sento incollarsi a me, le sento laggiù, le sento raccogliere il mio piacere, gli vengo in bocca nello stesso preciso istante in cui Fabri libera il suo orgasmo dentro le mie viscere.

Innanzitutto le scarpe.
Adesso le mie scarpe, misura 41 da uomo, mi fanno male perché i piedi mi sono rimasti feriti dalle numero 39 di raso nere della madre di Giò.
Poi le calze, banalissime calze da uomo, a metà gamba, e via via pantaloni, maglietta leggera, intimo maschile... Niente lacca nei capelli, niente phard.
Mi rivesto, mi rivesto da maschio, in abiti che ormai sento estranei, mentre Fabri e Giò dormono l'uno a un'estremità, l'altro dal lato opposto, quasi avessero paura di sfiorarsi, del letto matrimoniale.
Sono le cinque del mattino, fuori già albeggia.
Esco con le mani in tasca, sotto il braccio il libro di quel pervertito di Petronius Arbiter Elegantiarum, la mia strada ormai so qual è, sulle labbra sento ancora il sapore di un filo di rossetto.

Eva Blu

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