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Racconto n° 2583
Autore: Marthita Altri racconti di Marthita
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Terra di fiume
Era atterrata sull'argine stretto del fiume, dove l'acqua è solo uno sciacquio e piccole pietre aguzze si mescolano alla sabbia. Il tonfo dei talloni nudi e lo svolazzare scomposto della gonna subito afflosciata come ali chiuse. Aveva preso la mira contro la sagoma scura che tentava di amalgamarsi al buio, ma era inciampato in qualcosa e, per tenersi, aveva afferrato un ramo spinoso. Imprecando, si era portato il palmo alla bocca e il gusto del sangue lo aveva calmato. Idiota, da idiota venire fin lì da solo. Poteva succedergli di tutto e sarebbe stato troppo tardi comunque. Le sfumature della notte lo avevano sommerso. Le masse dei cespugli, i tronchi sovrastati dalle fronde compatte, i ciuffi d'erba in varie gradazioni d'altezza, ecco, tutto questo si era impresso in lui come un dipinto ad olio sul chiarore lontano del cielo. Non c'era nessuno – e chi poteva esserci a quell'ora, oltre ai disgraziati che giocavano a guardie e ladri? – e aveva deciso di lasciar perdere. ‘Fanculo a tutti. Alle vecchie che gracchiano al telefono con la voce isterica. Ai bastardi che, invece di dormire, scalano i balconi e vogliono entrare dalle finestre. E alle zingare che non se ne stanno nel letto da sole o con qualcuno, ma girano a far girare le palle a quelli come lui. Non ci aveva creduto, che fosse una zingara. Si era detto che la vecchia aveva visto male. Si trovavano in zona, per cui erano arrivati subito, a luci spente, rallentando appena svoltato l'angolo, avanzando adagio come un animale segue il sentore della preda. Si era lasciata scivolare dal balcone di lato all'insegna del bar. Accendendo i fari, avevano iniziato l'inseguimento. Correva come una lepre. Non si erano agitati più di tanto. Figuriamoci, una donna a piedi e un'auto di pattuglia. Manco a pensarci, no? Lui aveva perfino sbadigliato, prima delle bestemmie del collega, prima dell'inchiodata che lo aveva proiettato in avanti. Persa. L'avevano persa. Com'era possibile? Già. Un'automobile mica ci passava di lì. Era stata messa apposta, la sbarra metallica all'imbocco del viale. Lei era sgusciata agile, correndo a zigzag tra gli alberi del parco. Merda. Be', uno scende e la rincorre, uno fa il giro dall'altra parte, dove il ponte porta dritto all'interno del parco, proprio sul viale. Semplice, no? Qualche anno fa sarebbe stato semplice. Adesso, con tre chili ufficiali – e cinque reali – in sovrappeso, diventava difficile. Sì, era meglio lasciar perdere, tantopiù che quello là chissà dov'era finito. Ma quanto c'impiegava a fare il giro. E lui lì, che per poco si ammazzava giù da una riva.
Poi l'aveva sentita. Ridere. Rideva, quella troia, aveva il coraggio di ridere. Certo, si sentiva forte, a suo agio nel regno dei topi. Lo schifo che gli facevano i topi. Non doveva pensarci, o lo stomaco gli avrebbe giocato uno scherzo. Almeno ci fosse stata una bella luna piena. Idiota, ma che idiota. La torcia. La trovò dove doveva essere: appesa alla cintura. L'accese e qualcosa guizzò là in fondo, facendo ondeggiare la sterpaglia. Ti credi furba, eh? Ruzzolò veloce lungo l'argine mantenendo l'equilibrio, cogliendo il luccichio dell'acqua con la coda dell'occhio. Ora la vedeva. L'aveva individuata. Stava cercando di guadagnare l'arcata del ponte, dove una fila di massi accompagna sull'isolotto dei salici - una lingua di terra e sassi quasi nascosta dagli arbusti selvatici e da giovani salici arruffati dall'aria fredda che spazza quel tratto – e prosegue fino alla riva opposta. Non doveva permetterglielo. Non aveva intenzione di finire in acqua, lui non sapeva nuotare. Lei girò la testa un attimo. Anche a quella distanza brillava il candore dei denti. Ti faccio ridere io, stronza. Si era messo a correre, il fascio di luce che ballonzolava davanti a lui, dietro a lei, ai piedi nudi, alla gonna a fiori, alla maglietta bianca, ai capelli lunghi, a...Terra. A terra. Il sapore di acqua sporca, l'odore limaccioso del bagnato, terriccio e foglie appiccicati ai pantaloni e... Rideva. Di nuovo. Di lui. Rialzandosi la illuminò. Si era fermata a ridere, ormai prossima al ponte, al sentiero di massi che l'avrebbe salvata. Sentì la rabbia ruggirgli dentro, tendergli i muscoli mentre scattava e a falcate veloci si avvicinava a quella risata. Smise di ridere nel momento in cui si voltò per correre, annaspando con le braccia nell'oscurità. La sua rabbia l'aveva raggiunta, afferrandole la gonna con una tale violenza da sbatterla a terra, sulla ghiaia e i ciottoli lisci. Si era rimessa in piedi come una molla, saltando indietro, lontano da lui.
- Lurida troia... -
E con la torcia aveva illuminato il suo spavento e il dondolio da un piede all'altro, con gli occhi che balenavano alla ricerca di una fuga.
- Le mani sulla testa o ti sparo in faccia. -
Era ridicolo, inutile, pura cattiveria, ma ne aveva bisogno. Aveva bisogno di sentirsi il più forte. Lei aveva obbedito, incrociando le dita in alto, sui capelli, sollevando la maglietta.
Tra maglia e gonna. Lì si fermava la luce, sulla striscia di pelle nuda, e poco più su, sull'attacco morbido del seno imprigionato nel tessuto. Era rimasto un attimo di troppo a tastare con lo sguardo la conca ombreggiata del ventre, l'ampliarsi dei fianchi generosi, perdendo il vantaggio su di lei. Perdendo il suo spavento. Quando se n'era reso conto, era tardi. Ma era sempre tardi, quando permetteva alla solitudine di preparargli un trabocchetto. Non era necessario pensare alla casa vuota o alle giornate vuote come il suo cuore. Erano in lui. E ogni volta s'illudeva di cacciarle fuori, di lasciarle da qualche parte insieme a ciò che restava di una scopata. Insieme al sudore, all'affanno del respiro. E ogni volta si riportava tutto quanto indietro, come un peso di cui nessuno sapesse che fare. E anche se sapeva che niente sarebbe cambiato, era proprio quello che desiderava in quel momento. Cadere nel trabocchetto e restarci il più a lungo possibile. Per questo le permetteva di sorridere, di fissarlo a quel modo, di togliere la maglietta e sfilare la gonna. Di offrirsi come si offrivano tutte le donne che incontrava, appena capivano cosa voleva. E lui accettava l'offerta, un obolo dovuto alla libertà di continuare la vita di sempre. La luce percorreva il corpo nudo con la curiosità di una scoperta, come le sue mani percorrevano sempre i corpi disponibili per lui. Anonimi, ormai. Senza muoversi, disegnò linee luminose tra le cosce scostate con sprezzo.
- Niente elemosina. - ringhiò piano lui.
Danzò sul suo viso con il fascio di luce fino a farle chiudere gli occhi.
- Girati. -
Si era girata, forse anche volentieri, pur di non avere quel fastidio sulle pupille. E lui l'aveva frugata col suo dito luminoso nel solco tra le natiche sode. Le donne. Piene di pertugi, di cavità profonde capaci d'ingoiare tutto di un uomo. Ti fagocitano, se glielo permetti.
- Allarga le gambe. -
Aveva obbedito, voltando un po' la testa a sbirciarlo. Si era avvicinato adagio.
- Non ridi più? -
Vedeva la sua espressione allarmata, l'espressione che lo eccitava da impazzire in ogni donna. La loro paura. Il suo potere. Con calma prese la pistola. Gliela puntò nella schiena. Il contatto del metallo le accapponò la pelle.
- Fatto niente, io... - bisbigliò lei.
- Hai riso. - rispose lui.
Gli lanciò l'occhiata di un animale in pericolo. Il predatore era lui.
Di solito non andava così. Di solito le prendeva vorace, violento, scaricandosi nei loro buchi. Cavità profonde, da cui temeva di non risalire. Eppure lo restituivano sempre alla sua vita, restituendogli intatta la sua solitudine. Realizzò il particolare che aveva stravolto tutto. La pistola puntata. Mai era successo. Mica ne aveva mai bisogno. Neanche adesso. L'avrebbero rilasciata subito, lo sapeva. Ripensò alla sua risata. Avrebbe di nuovo riso di lui, il giorno dopo e quello dopo ancora.
Allora slacciò i pantaloni dicendo : - Lo schifo che mi fai... -
Lei fissava il buio di fronte a sé, la schiena contratta contro la bocca fredda di un'arma, ascoltandolo ansimare per un piacere che lei voleva ignorare. Sentì lo schizzo tiepido sulla pelle e rimase immobile.
- Fila. -
Non se lo fece ripetere. Raccolse la sua roba e cominciò a correre, senza voltarsi.
Lui sentì lo stridere delle gomme e la voce del collega che lo chiamava. Non rispose subito. Si guardò intorno, galleggiando come un naufrago nella notte, finchè vide la sagoma di un grosso topo nuotare in mezzo al fiume. Allora serrò i denti e si avviò su per la riva.

Marthita

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