Scrivo gli epiloghi della vita da sola, senza considerare cosa pensino gli altri che, della mia esistenza, hanno fatto parte.
Sono una maledetta egoista, voglio tutto per me, il dolore e l'amore. Non scelgo fra l'uno e l'altro, nella matassa dei miei nervi si insinuano entrambi come serpi, confondendosi e attorcigliandosi. Spire malvagie mi strizzano le carotidi e mi fanno annaspare.
Anche oggi ho la missione vita da compiere. Ma con te. Che strane sensazioni. Vortica il tuo pensiero, turbinano le tue parole dentro di me. Nel mio cervello si animano indomabili, nel mio cuore si incidono taglienti.
Non ti chiedo dove sei. Ora lo so. Sei tornato prepotente fra le mie gambe, dentro i miei occhi, sulla mia pelle.
Ma la mia mente no, quella non l'hai mai abbandonata.
Il sale delle lacrime ha solcato le mie gote. Troppo ti ho cercato, pianto, anelato.
Ripensarti era come recarsi ad un cimitero. Vedevo la tua migliore fotografia piantonata in un portaritratti argentato e intorno i vezzi di una natura iridescente.
Ed io che pregavo. Pregavo un ritorno che credevo impossibile. Ma solo i morti non riappaiono.
La morte è il tacere eterno, l'assenza forzata, il congedo imperituro. Morire è mozzare il respiro, recidere le relazioni, sopire la presenza.
Tu non sei mai morto.
Ti ho tenuto in vita dentro di me, con l'amore che solo il grembo di una donna sa alimentare. La fertilità della mia memoria ha dissetato il rimpianto di te, mentre le mie mani plasmavano e le mie gambe avanzavano unicamente per te.
In attesa della tua ricomparsa in vita.
Non sono felice, neanche ora, dopo la tua resurrezione.
Sono il capriccio insano, la bestia inferocita e mai paga.
Scivolo come una lucertola in quell'angolo di sole che al mio arrivo si adombra, sempre.
Vacuità funesta e contagiosa la tua anima.
Il tuo odore selvatico si fa tigna sul mio corpo. Strofino la pelle per separarmi da questa nuova rogna, sotto lo scroscio sordo e bollente dell'acqua. Raspo con le unghie e una spugna grezza l'amaro pungente del sesso, del tuo sesso.
Svuoto bottiglie di bagnoschiuma ai mille frutti, ai mille fiori, ai mille sapori e friziono spuma rosata intorno ai seni rigonfi d'estrogeni, al ventre guizzante del tuo seme, al taglio sgusciato e riverso.
Tutto come prima: il telefono che reclama vibrante i tuoi desideri, il mio corpo stanco di esaudirli, il mio cuore illuso che io esisto, ancora, per te.
Cazzate che ti sei inventato tu e la mia psicoterapeuta.
- È felice perché ha avuto la conferma che lei è ancora presente nei suoi pensieri! -
Sentenzia, inforcando gli occhiali rotondi e sprofondando nella poltrona in pelle. Pelle umana, forse, di tutti quegli stronzi come me, che svuotano il portafoglio di centoni per farsi prescrivere la ricetta della felicità.
Ci divide una scrivania, in questa villa gigante e fredda, a picco su un lago grigio e stagnante. Compero la ricetta della felicità in un contorno spento e apatico, che riecheggia di forza le sfaccettature incontentabili del mio spirito.
Ci divide una scrivania, già un limite labile della mobilia che marca il confine del potere.
Lei ha i sacri crismi attaccati alle pareti per vendere pillole di buon umore, dopo aver fatto vomitare i confini claustrofobizzanti di un passato improvvisamente doloroso e frustrante e le gabbie dell'animo che imprigionano ogni buona volontà di vivere e non solo di sopravvivere.
- Sono felice - mi ripeto, mentre m'incammino verso l'auto, coi tacchi che sprofondano nel giardinetto custodito da Biancaneve e i sette nani.
- Sono felice - ribadisco, perché me l'ha detto una psicoterapeuta, perché tu sei tornato, perché non sono felice, perché la felicità non si compera, perché non è neppure in vendita, la domanda superebbe l'offerta e non vi sono fonti inesauribili di felicità, perché tu sei riapparso nella mia vita non per amore, tu l'amore non sai neppure cosa sia.
Mi rivuoi fra i tuoi trofei, quale ennesimo raggiungimento di un traguardo con un numero di telefono ed una vagina.
Ritorni da me perché sai che ti avvolgerei nel mulinello dell'affetto, regalato, senza alcuna pretesa di riscontro. Sei solo, anche tu, ed infelice di non essere felice.
Rientro in casa, dopo un'odissea incompiuta, fra le penombre obbligate e i ricordi tesi di una vita incolore ed insapore.
Sorrido della mia finta felicità, della perizia falsamente ragionata di una sconosciuta, della mia eterna lotta con la tua assenza.
Un rivolo d'acqua serpeggia al di sotto della porta del bagno, sfociando dal piatto della doccia siliconato maldestramente. È un rivolo che trasporta fra le righe separatorie delle piastrelle il mio tentativo di catarsi da te.
Afferro lo straccio ammuffito in lavanderia, mi inginocchio sulle sbucciature doloranti delle tue perversioni acrobatiche e raccolgo cellule di te.
La stoffa, rappresa dall'asciugatura, si gonfia sotto le mie mani. Sembra respirare di un nuovo alito. Raggiungo la fonte. La prima pozzanghera è evaporata, lasciando sulla ceramica incrostazioni ostinate che fatico ad eliminare.
Sfrego isterica sulle tracce di te, non scompaiono. Sei indelebile, persino da un pavimento.
Finisco in camera da letto. Alcova imprudente dell'incipit disarmante di un nuovo capitolo.
È un libro questa mia vita con te, dove tutto accade all'incontrario. L'epilogo è già pronto, prima ancora che l'inchiostro abbia avvelenato di oscenità lacere la prima pagina.
Spalanco la finestra perché l'agrezza del piacere ultimo non soffochi l'ossigeno ancora concessomi di respirare.
È un odore questo che nasce dal miscuglio indefesso e irragionevole del profumo col fetore.
È il segno memore che si annida sotto le unghie, in ogni piega del corpo, all'interno d'ogni cavità. Non si estirpa con acqua e sapone. Rimane saldamente abbarbicato alle porosità epidermiche, nella fiata accalorata, nel pungolo cerebrale.
È la testimonianza del peccare soddisfatto, inadeguato al mondo pubblico, celante, geloso ed impaurito, la clandestinità ruspante del godere.
Sollevo il lenzuolo. La macchia dei nostri liquidi alona i tessuti e le mie iridi.
Passo una mano sopra la risultante delle nostre finali fatiche. E la respiro.
Insieme sappiamo di buono e di selvaggio.
Raggomitolo i sudari del nostro incontro, li infilo in lavatrice e giro la manopola sui novanta gradi.
Che si ledano, che si lacerino, che si squarcino questi cenci e che muoiano in brandelli come il mio cuore.
Non sono felice, no, perché non ti possiedo, neanche dopo averti riavuto.
Ma poi come pretendere di dominare un'anima se non si è padroni neppure del corpo?
Mi arrovello di interrogativi e mi scopro incapace di gioire del delirio amoroso in cui ci siamo vicendevolmente trascinati.
Sono devastata da una ricerca dolorosa della felicità che mi porterà all'insoddisfazione, perenne e desolata.
Non so neppure io cosa sia la felicità. Ne ho in tasca una ricetta bugiarda. Ne ho sulla pelle una cocente deposizione.
Mentre l'acqua e il sapone del lavaggio tentano di cancellare i nostri liquidi, ma mai la felice riunione.
ElisaN