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Racconto n° 2942
Autore: Nescitgalatea Altri racconti di Nescitgalatea
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Koimçtérion
Azzurrina balugina la primavera; sotto alberi succhianti
un che di scuro s'avvia nella sera al tramonto
ascoltando il dolce lamento del merlo.
Tacita appare la notte, preda che sanguina
e lenta s'accascia sul colle.

Chiudere un libro, ripararsi dalle pagine che pesano sui pensieri, mi lascia inquieta, come non avessi tempo. Il tempo di giocare la saggezza di un gesto, un pronostico sul prossimo futuro che incombe e urta. E' giovedì e il cuore sembra già arrivato a sabato. Ho dieci sigarette da consumare prima di finire la scorta. Le lascio cadere tutte fuori dal pacchetto, sul mio letto che in questi giorni ti chiama spesso. Ne accendo tre. Insieme. Le stringo tra le labbra mentre aspiro tutta l'aria che posso.

Il merlo abbattuto con una sassata l'hanno inchiodato vivo. Una sbuffata d'aria gli muove le piume morte e il suo ghigno resta immobile, nulla da aggiungere. Fa parte della sera l'atmosfera turbata che lo circonda. Perché in solitudine non è difficile amplificare lo spazio. Queste quattro pareti semimovibili lo avvolgono e subito dopo s'allontanano e lui pare persino aprire e richiudere le ali. A tempo. Come una scatola vuota. Un insensato carillon che suona e ogni volta che lo apri svela la ballerina con le gambe tronche che si muovono senza armonia. E' una scatola che, indubbiamente, contiene qualcosa, questa che tengo fra le mani mentre ti ascolto ridere.
Non ti vedo.
Non mi vedo.
Perché so che quando i nostri occhi si incontreranno sarà come sempre. Come quando ti sento mio così tanto da poterti toccare. Il merlo non gufa, non ride, non dice più nulla. Chissà se aveva mai immaginato di volare contro una pietra o che le pietre volassero verso il suo albero, proprio all'altezza del ramo, tra le foglie nelle quali aveva cercato rifugio e pensato di trovarlo.
Non so nemmeno se la pietra avrebbe mai pensato di finire contro un merlo, lasciarlo stecchito, rintronato, ed essere causa della sua caduta pesante verso la terra. Lei probabilmente non si è nemmeno chiesta chi, quella notte, sarebbe stato lì ad aspettarla.
Vana attesa, la mia, oramai inutile perchè nulla da questo momento potrà toccare lo scorrere delle ore. Il merlo invece mi guarda e si arruffa un po' cercando di sedurmi al suo modo nuovo di intendere la vita.
Immobile cerco di trovarmi. Rintraccio un braccio, dimenticato sotto al cuscino, corredato della mano e di cinque dita. Atrofizzate. Una gamba è finita sotto il letto e gli occhi sparati sul soffitto, tra le pieghe di un legno antico, sembrano nodi.
Manca il fiocco con cui confezionerò la mia scatola. Riepilogo mentale o recupero morale. Una scatola, gli occhi come nodi, un braccio atrofizzato, la stanza che respira, sorrisi. E io, che non ci sono. Eppure tra le pagine di quel libro avevo trovato molte tracce. Sempre così succede. Io che non sono merlo ma camaleonte e m'infilo i calzoni di chiunque.

E' ora. Esco di casa, per cercarti o per capire che non ho più niente da trovare. Posso lasciare in questa stanza tutto quello che ho sparpagliato in giro, certa che nessuno ci metterà mano e tenere per me la voglia che ho di andare ovunque non sia qui. Perché la mia scatola ha ancora un angolo vuoto, l'avevo tenuto per una occasione particolare, conservato per metterci dentro qualcosa che facesse la differenza. Tutto il resto stipato ben bene, una massa informe dalla quale è difficile distinguere persone, cose, e accadimenti e che non mi da nessuna tristezza, almeno fin quando non rintraccio anche qualcosa di me affondato in quel marasma.
Esco e vago per il parco mentre i pavoni aprono le loro ruote e le oche starnazzano tranquille. L'acqua del ruscello è ferma, come non avesse rughe da raccontare né sassi giocati al rimbalzo, non ci sono voci, è troppo tardi.
Questo è il silenzio che stavo cercando. Quello che dovrebbe regalarmi richiami nuovi.
La scatola è rimasta per terra, accanto al letto e ancora non so cosa ci metterò dentro.
- Ti sento dentro - mi avevi detto - Anche io - ho risposto, ed è vero. E' vero. Lo ripeto come se dovessi convincere me stessa.

Cammino. Un uomo e una donna passeggiano di fronte a me tenendosi per mano. Non mi intenerisce più la scena. Ogni mio passo un viso diverso, mani diverse, occhi diversi.
Troppi e troppo distanti. Così è disgusto questo che apprendo nel palato, la lingua liscia le pareti delle mie guance, sfiora i denti, cerca distrazione e so che questa umidità è tutto il freddo che ho tenuto dentro per ogni amplesso ricevuto. Ricevuto.

Nessuna sensazione, la solitudine è meno dolorosa dell'indifferenza, pigra anche nel cercare di essere. Non cedo e non permetto infrazioni.
Forse tu. Mi piacerebbe tanto.
So dove trovarti per cui continuo a camminare. Il cancello è chiuso, me lo avevi anticipato. Così proseguo rasente il muro, fino all'ingresso secondario.
Il sole è tramontato e l'aria si è spenta. Ferma come fosse arrivato il tempo giusto.
Il piccolo varco mi lascia passare.
Non so dove trovarti ma ti cercherò sotto ogni fronda, tra i marmi tinti dal tempo, i fiori appassiti dal caldo di oggi. Le mie mani sono pronte.
Ti cercherò perché ho deciso di guardarti e non ho paura.
Le luci tremule delle candele non illuminano. Nessuna ombra solo suoni stentati. Ci sono date impresse, pleurant in atteggiamento dolorante, elevazioni ipogèe, a edicola. Simbolici punti intermedi di un viaggio. Come me. Un punto di passaggio ora, qui mentre anche i cipressi muovono le punte. Nessun risveglio, solo un movimento convulso, impresso dalla termica della sera che si appoggia e da i brividi.

Lei aveva solo 36 anni quando è arrivata. L'hanno sistemata accanto a due vecchi sposi che ancora si abbracciano, forse si sente un po' sola, forse no. L'espressione del suo viso è gioiosa, appoggiata con le mani che le tengono il viso, sorride. Gli occhi chiari e alcune nuvole grigie che fiaccano l'orizzonte. Presagi? Nemmeno uno, c'è quiete e questo oscuro silenzio pare in equilibrio sulle emozioni. Del viaggio nessuna traccia, nemmeno tra i miei occhi che curiosi indagano storie, vite vissute, vite sfiorate, vite concluse.

Movimento alle mie spalle.
Nessun ospite di questo albergo tranquillo, solo un passante distratto, un esule, un disertore del mondo. Indossi una maglia bianca che rifrange sopra le pietre chiare a ricordare alcove, e vorrei tuffarmi in te, ora che ti vedo, ma mi trattengo. Fingo di non averti sentito arrivare e aspetto.
Le tue mani si posano sulle mie spalle e lì si fermano, come fossero la morte. Lascio andare il tempo di ascoltare la tua pressione. Come fosse quel punto di non ritorno che da sempre desidero trovare. Premi e sento la tua pelle, dattiloscopia delle impronte che incido nell'animo come tatuaggi. Ogni cresta, ogni piede, impronte latenti e allo stesso tempo visibili che scavano, distendono e marcano. Resto immobile perché il tuo respiro mi arriva sul collo. Sensazione confermata, ribadita qualora ce ne fosse stato bisogno.
E la pellicola si rintraccia. Rivedo le nostre ore, tentennanti e violente verso un approccio insolito. Tagliato in sottili fermo-immagine da mani che avevano bisogno di farlo. Sorprese dell'incastro procurato dal tempo, determinato e negli anni vincolato a questo incontro. Ecco della tua e mia storia l'epilogo che stiamo inventando, lo scatto finale verso il quale tendiamo.
Per questo è d'obbligo il paesaggio. Il ruolo, l'archetipo indelebile a sigillo dell'ipotesi di essere primi e unici. Distinguibili.

Seguo la strada che le tue labbra percorrono, venti centimetri di buio, di silenzio, di candele consumate che si muovono irrequiete come le tue labbra agganciate al filo sottile del mio desiderio che le accompagna fino alla nuca. Mi faccio selvatica perché mi prendi il collo. Prima con la bocca, la punta della lingua che sfiora l'attaccatura dei capelli, poi con i denti, saldi, chiusi sulla pelle che sollevano teneramente. Caparbi stringono per assaggiarmi. Così lasci respiro anche della tua dentatura, l'assalto degli incisivi che amo sentire puntati contro e per me. E le tue mani scivolano che quasi non me ne accorgono. S'interessano alla mia camicetta appoggiata ai fianchi, ne calcolano il peso, la materia, analizzano la linea dei fianchi, quel corpo che ne è contenuto. Sotto esame il punto esatto in cui il bacino s'impone e comanda ricchezza. Passaggio verso un cortile interno accogliente e accolto. Le fai passare con tenerezza verso la soglia a tagliare la carne, solcandola di una verginità ritrovata. Le gambe incaute si schiudono senza occupare altro spazio, solo una crepa, il solco dove voglio sentirti passare mentre mi schianti la lingua tra le orecchie e il collo. Sussurri e non capisco solo perché non voglio nessuna parola.
Facoltà che ti nego quella del dire, ora e qui c'è necessità del generare, formare, provocare. Noi ragione e causa di questa morte e della sua rinascita degni tanto da non cancellare il senso, portanti il modo nuovo di procurarsi la vita. Il flusso che attraversa la strettoia, noi a decidere di guardarci vivere nella morte. Risorgere da questa terra come astrazione da ciò che fu senza oblio alcuno. Operazione chirurgica e complessa che percepisco nel ventre. Tu, dentro come la mia morte e la mia stessa esistenza. Questo sento nello spasmo che ti tiene intimo, nascosto, celato e ambiguo fra le mie profondità.

Mi prendi per mano e io ti seguo perché sono prigioniera e liberata. Il viale che mi fai camminare è l'arteria principale, il corso caldo di questo labirinto dove hai deciso di farmi perdere e umido e accogliente è il giaciglio che scegli.
Mi adagi sulla terra che ha il tuo stesso profumo, Bryophyta, e si trasporta liquido per capillarità, divenendo unico aroma misto al mio.
Questa Ara è mensa sacra dove mi chiedi di offrirmi a te. Distesa alzo le braccia e con le dita comprimo la zolla mentre sollevo i ginocchi coperti dal tessuto della mia gonna che non vuole arrendersi. La tiri su e ci vesti i seni e tutto il mio viso.
Ora c'è solo da ascoltare e tu sei buono, non ti fai attendere.
Nessuna attesa in questo nostro tempo. Sfiorati troppo spesso per non inciampare in noi. Così distinti e uguali, stretti al mondo. Ogni parola oggi ha un sapore diverso, solo per il fatto che sono le tue labbra a pronunciarla e lo fanno mentre mi guardano. Per questo è difficile considerare la differenza. Perché non c'è mai stata differenza in questo sentirti gigante, padrone di ciò che ho sempre tenuto dentro. Ecco come il tempo s'assottiglia e le ore spengono tutta la vita trascorsa senza di te. Come fosse stato un momento, solo un attimo, il tempo dell'indice sull'interruttore, il click e poi il tutto intorno che prende forma. La melodia rintracciata nelle cose che ho sempre tenuto care, ogni giorno e che oggi trovano motivazione in questo essere rimaste accanto a me.

Anche qui.
Ora.
In questo luogo che è casa, appartenenza, la fine di un viaggio alla conquista della terra fertile. Desidero che così sia.
E che sia così ora che le tue mani mi afferrano le caviglie scivolando fino al polpaccio e prendono a danzare su e giù tra i miei brividi. Accolgo il tuo gioco, la bocca che scandisce ciò che senti e provi, tutto quello che hai desiderato in queste ore, così anche il silenzio non si distrae e ti da il ritmo per trovare il giusto movimento, quello della rivelazione, la promessa, il passaggio che conduce all'addio infinito conservato in ogni incontro.
Sarai tu, amore mio, un lungo addio senza fine?
Perché è questa la tensione che ho desiderio di coltivare. La linea sottile che difende dal consueto e fa di questo momento un istante da serbare con la cura per le cose fragili, vere, vive, uniche.

Il mio ginocchio ti ascolta, ci resti appoggiato per guardarmi, i tuoi occhi puntati verso me, traballanti sotto la luce che non fissa ma spia anche lei. Distendo ogni desiderio perché voglio essere tua tutta sino alla fine di me, che è ora la punta delle dita: quelle dei piedi puntati sui sandali a fare da perno e quelle delle mani che continuano a solcare la terra madre, l'odore primordiale che ti riconosco e che mi aiuta a morire e rinascere, io stessa sostanza di ciò che hai deciso di confondere con me.
Ancora esplori e ti muovi alimentando il mio sostare rumoroso in questa sera: perché ho la gonna sul viso, le mani nel fango, le gambe aperte come fossero un cuneo che ti guida dove ti voglio. I tuoi capelli sulla pelle liscia delle cosce, sfiorano e passano, potrei contarli per come ti muovi piano, leccando e fremendo. Percepisco il tuo fiato e sento che ti avvicini, contraggo il contrasto di volerti e di temerti allo stesso tempo. La gonna mi entra nella bocca e succhio la stoffa, la stringo fra i denti, non voglio disturbare la quiete che mi ha accolta mentre trovi il varco. Entri senza esitare, lo fai con la testa e la lingua aspide in cerca del suo veleno. Liquido bramato dove finire nell'ultima estasi possibile. Oscena configurazione di sentire che con te finisco e tu con me esaurisci. Così striscia, si trascina raccoglie, liscia, lecca, serpeggia, propagandosi rasenta, sfiora, graffia, segna, si sfrega e struscia. Io entrata, spinta, incuneata, pervasa, permeata, scoperta, decifrata, afferrata, risucchiata, varcata, insinuata.
Sei ovunque e vorrei gridartelo e lo faccio perché non esiste cielo che possa sottrarsi al destino di guardare qui sotto cosa succede. Lo faccio perché c'è amore tra queste lapidi, nelle vite già vissute quelle che godono della bellezza eterna, indissolubile e mi sciolgo sul tuo viso e sobbalzo senza potermi controllare. Ti sollevi e sollevi la mia gonna, mi guardi godere e regali sapori mentre mi baci la prima volta. La prima volta.
Immortale, perenne icona del mio esserti dentro, del tuo sprofondare l'infinito.
La schiena è flessa, chiama verso te parole che non riesco a trovare. Ora la notte sembra la più profonda di tutte quelle che ho vissuto e le stelle si restituiscono al suolo.

Anche la città deve aver fatto bagaglio e lasciato sparpagliate tra le case solo lattine vuote. Le ascolto blaterare e ti prendo la testa, ti sfioro, ti invito. Così tutto il tuo viso ora è dentro. E' un rumore che fa rumore quello della città fuori e dentro la mia testa perché c'è la vita che spinge e vuole sedersi in prima fila e tu sali come onda irregolare e mentre sali col viso entri sollevandomi il bacino. Così mi resti, nel tuo corpo che è caldo e non soffre differenza tra la bocca che mi ingoia e io che ingoio te. E' storia che asciuga ferite o sei tu? Tutta la vita affoga dentro noi due che ci stiamo amando. Per questo ora gli alberi ondeggiano, l'onda sbatte, la mia schiena freme. Per questo averti dentro da sempre con le mani che stringono le mie che strappano anche la polvere di tutto l'insieme che è solo noi. Ti spieghi con gli occhi spalancati e aperti che confondo con queste stelle che ancora piovono giù.

Il merlo ha perso due penne. Continuo a guardarti per ore nella stanza con le pareti che crepano. La tua voce, seria che presenta un progetto rischioso. Perché non siamo vecchi né stanchi solo diversi. Per questo incontrarti lì pareva un modo anomalo, strano di imboccare la vita. Vita? Mi avevi risposto. No. Io ti voglio fino alla fine. Fine? Non avevo compreso il senso e giocavo sui tuoi pensieri difficili. Ti voglio tra la vita e la morte. Ti voglio dove non ci sono parole, dove la luce è accecante buio, dove le promesse sono per sempre. Ti voglio tra le cicatrici sulle mie gambe e la penombra di un cinema all'aperto. Sei storia, la mia storia. Un rewind preoccupante mentre i muri mi schiacciano. Sono fuori posto come la pagina del libro chiuso prima dell'onda, come la scatola vuota che ora si colma di te.

Un cadavere cerchi sotto alberi verdi
la tua sposa
la rosa d'argento
sospesa sul colle notturno.

Mentre lungo le rive nere cammini
della morte,
sboccia purpureo nel cuore il fiore d'inferno.


(Al fumista)


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