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Racconto n° 2969
Autore: Erato Altri racconti di Erato
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Alfa
Monocromatica tela... nessun artista vorrà mai dipingerti.
Nessuno saprà mai usare quei torbidi rossi come facevo io.
Perché ti amavo di questa folle rabbia di vermiglio...


Lo guardò come fosse stata la prima volta che lo incontrava, invece si conoscevano da anni.
Forse fu il suo sguardo nuovo ad incollarla ai suoi occhi, o forse solo il frutto di una serie di fattori concomitanti.


Anche quel pomeriggio, come tutte le volte che aveva per le mani un lavoro da ultimare, l'aveva cercata. Maryem gli aveva promesso che sarebbe stata lì all'imbrunire. Lui da sempre affermava che il sopracciglio inarcato di Lei era il giudizio più sincero ed attendibile che potesse avere per una sua opera.
Lei arrivò. Salì le scale umide, l'intonaco scrostato dei muri e la ringhiera consunta dalla ruggine degli anni accrescevano il fascino decadente del vecchio edificio in Rue de la Condamine, nelle vicinanze di Batignolles a Parigi. Si fermò al piano nobile, dove da sempre un ampio salone ospitava l'atelier di pittori vecchi e nuovi, lo stesso che aveva visto nascere la scuola degli Impressionisti. L'eredità d'arte di quel luogo era un richiamo affascinante e pregno d'antica malìa.
Intorno era un adorabile caos variopinto: ovunque c'erano pennelli lasciati ad asciugare in latte riciclate, colori essiccati, polveri, pigmenti, improbabili tavolozze ricavate su improvvisati supporti, diluenti e olii; sparse lungo le pareti del grande studio che era stato di Frèdèric Bazille, un numero spropositato di tele: poggiate, sovrapposte, apparentemente dimenticate in un angolo. In ordine sparso sul pavimento antico, a doghe di ciliegio, dipinto di un indefinito colore bruno, c'erano libri dall'elegante rilegatura in cuoio; sulle copertine consunte dalle dita, sbiaditi a tratti, solenni caratteri gotici. I tomi antichi giacevano abbandonati da chissà quanto, indifferentemente poggiati per terra o sui tavoli, accatastati in disordine, in pila a sorreggere l'eterno posacenere con l'eterna sigaretta poggiata al suo interno: le volute sottili del fumo si perdevano in alto, con il loro cilestrino volteggiare d'arabeschi.
- Allora Maryem, dimmi cosa pensi di questo - nel dirlo Sergio tirò via un drappo, che un tempo doveva esser stato rosso, e la tela sgorgò fuori, accesa di brillanti fiori dai petali chiari, e sui petali, sdraiata, una magnifica donna dalle chiome fluenti e brune e dalla carne bianca come la luna. Sul viso diafano, due magnetici occhi pervinca.
Per Maryem fu istintivo avvicinare la mano e, senza toccare il dipinto, sfiorare il viso di quella figura che sembrava uscire prepotentemente dalla tela. Rimase incantata: quella donna le somigliava in maniera sorprendente.
Intanto, fuori dalle alte ed eleganti finestre dell'antico studio, la sera aveva già ceduto il passo alla notte, lasciando filtrare dai vetri opacizzati dal tempo i raggi di un'indifferente luna. L'aria tiepida di maggio aleggiava magica e rarefatta.
- Perché te ne sei andata, Maryem? - esordì lui guardandola negli occhi. La domanda la colse impreparata, avrebbe voluto distogliere il suo sguardo d'ametista dal viso di lui, perché non vi leggesse dentro l'inquietudine e la voglia. Si voltò a guardare oltre le finestre, senza rispondergli. Ma lui non mollò la presa, avanzò piano. Lei lo sentì dietro le sue spalle. Sentì il suo respiro lento e armonico circumnavigarle i sensi e posarsi sulla nuca, intuì perfettamente il corso dei pensieri e la voglia di lui farsi precisa, insolente, diretta. Adesso. Stanotte. Mia.
- Ti ho dentro - . La frase era arrivata netta, forte, veloce; era rimbalzata dalla testa di Maryem direttamente al suo stesso ventre e poi più giù, fino a trasformarsi in lacrime di piacere.
Silenzio interminabile. Poi le dita di lei si contrassero sui vetri e si sciolsero in una carezza tra i capelli di Sergio.
Gli bastarono quelle mani. Piccole, morbide, armoniose. Gli bastarono a riportare alla mente il ricordo di un'altra età e di altri luoghi. Fu solo un attimo, poi tutto sparì, inghiottito nuovamente dal passato che lo aveva vomitato poco prima. Nell'aria un cirro appena, di lieve profumo.
Era il suo profumo a stordirlo, da sempre. Lo cercò a fondo, nell'azzardo silenzioso di un abbraccio senza permesso, il volto perso tra i suoi seni, mentre inspirava a occhi chiusi quell'odore perduto nel tempo.
- Ti prego, andiamo via - disse Maryem, riconoscendo a quel luogo un potere galeotto; le parole fluirono incontrollate, appena percettibili, ma non ci credeva nemmeno lei mentre le pronunciava.
- Continua... accarezzami - disse lui.
- Ti prego - , la voce di Maryem s‘era spezzata in gola, ma non la ascoltavano nemmeno le sue mani che scompigliavano capelli e pensieri di Sergio.
D'esperienza e intuito risalì piano la pelle di lei, quella delicata nell'incavo tra i seni e quella sottile della gola. Si muoveva ad occhi chiusi, felino e padrone di un territorio conosciuto. La bocca di Maryem lo attendeva, dischiusa appena, pronta. Le labbra, due emisferi deliziosamente carnosi e combacianti, di un rosa umido e bambino, lasciavano sensualmente intravedere i denti perfetti. Lui la baciò: un bacio pieno, rotondo, profondo.
- Non possiamo - . Con il respiro contratto Maryem si rifugiò tra le sue braccia. Nonostante le parole, nonostante il pericolo.
Sergio avvertì l'anima di lei rimbombare forte contro le pareti dello sterno, oltrepassargli la pelle e cantare con la sua.
Non era più l'immenso studio antico ad accoglierli, erano nudi in braccio alla notte, tra le mani di un desiderio incontenibile che scalciava impaziente nella testa, negli occhi, nelle mani.
E la passione montò impazzita a quel contatto, anzichè scemare come il senno suggeriva.
Felini, prede d'asma e d'ansia, si studiarono di baci, si stordirono di carezze. Sergio non si contenne più e lasciò libere le mani di spogliarla; trasalì la stoffa leggera della camicia bianca, la mano avida a contenerle un seno; con l'altra mano slacciava gli ultimi bottoni che lo separavano dalla pelle di lei, trasparente e morbida. Ansioso, feroce, scese lungo le sue cosce, risalì d'impeto e - cieco - immerse le dita dentro di lei. Maryem reclinò la testa in un sospiro di piacere; i capelli, una morbida cascata bruna, le inondarono le spalle mentre la morbida schiena si inarcava in una curva lucida d'amore. Sergio risalì ad occhi chiusi quella gola offerta, affondò impietoso i denti e la divorò a morsi.
- Accarezzami, ti prego - disse lei in un ultimo soffio di voce comprensibile. Sergio non desiderava altro e le carezze sciolsero di lingua i lombi, la schiena nuda, le spalle, il dolce calice tra le clavicole; risalirono dietro i lobi delle orecchie lasciandole sospesa l'eco di tenere sconcezze; proseguirono liquide lungo le braccia, a chiudersi tra i denti i polsi, i gomiti, le pieghe del seno, i fianchi morbidi, l'interno delle cosce, l'anima umida della sua femminilità. Maryem ansimava ormai e le sue dita trattenevano la testa di lui, ferma, contro il ventre liquefatto di desiderio. Non le diede tempo di pensare, il richiamo dei sensi lo indusse a farla sua. Adesso. Sua.
Contro il freddo del muro, tra una finestra e l'altra, i suoi colpi precisi, pretenziosi, le sfondarono il cuore.
Senza mai staccarsi la sdraiò sul pavimento nudo, la esplorò con la lingua e con la bocca, bevve il suo piacere; scopandola con dita sapienti trasfigurò ogni contenuta parvenza in un ritratto osceno ed eccitante: la sua faccia da troia, il profilo più bello; fermandole i polsi sopra la testa e ricamandole in punta di lingua l'apice morbido dei seni, il collo, il viso, le palpebre, le tempie pulsanti di desiderio, la amò di sesso incontenibile. Maryem non riusciva a stare ferma sotto quell'uomo che le affondava dentro con l'anima e le straziava di piacere i nervi scoperti; prese a muoversi, a contenerlo sfacciata, a ghermirlo tra le sue cosce dischiuse e richiuse come chele avare sopra la sua schiena. In quel vortice di lussuria scomparvero i dubbi, gli antichi demoni, il controllo estremo della mente e non ci fu più nulla oltre lei, oltre lui, oltre il confine spazio-tempo che li inghiottiva complice.
Fuori la vita continuava a scorrere ignara. Il silenzio ammortizzato alla sommità del soffitto osservava la sfera dei sensi che conteneva i due amanti: due corpi senza dogana, il piacere diffuso che si fonde e diventa unico; Lui, prepotente, ormai alla soglia di un orgasmo atteso troppo a lungo, colpo su colpo la fece avanzare fino alle tele poggiate in disordine alle pareti e lì, tra i colori e le resine, dipinse con lei il suo quadro più bello.


Omega
E in punta di mani, oltre te e l'infinito
non desideravo più nulla.

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