La mia bis-bis-nonna era americana. Nata e cresciuta in un bordello in quello che oggi chiamiamo il vecchio west. Circondata da un sacco di madri e da milioni di padri volanti.
In mezzo a lustrini, guepiérre e musica calda suonata sul piano da dita nere e forti, luccicanti di un anello dorato al mignolo sinistro.
Gli occhi, grandi nocciole, ricordavano dell'infanzia immagini fugaci di colori e di danze. Ed era cresciuta danzando in questo girotondo disordinato e chiassoso, danzando ed imparando.
Ogni madre era entrata a far parte di lei per qualcosa, di ognuna aveva osservato i gesti, separato le virtù e imparato a dare il nome alla specialità con quella bocca piccola e ingenua. Tramite loro aveva snocciolato le varie declinazioni dei vizi umani, un rosario perpetuo scandito dall'avanzare degli anni.
All'età in cui fu finalmente autorizzata ad indossare la sua prima giarrettiera, girava la voce che l'Hotel California fosse il miglior bordello della costa occidentale.
Non ci volle molto tempo prima che il suo nome venisse mormorato sospirando da centinaia di bocche baffute, in mezzo a parole di tabacco e polvere. Fra le ragazze la sua leadership era indiscussa e in breve, a colpi di lingua e d'ingegno, divenne la tenutaria ufficiale.
Ma un giorno arrivò, per caso o per destino, un italiano profumato di mare e di limoni che le parlò, senza bugie e con i ricordi lucidi negli occhi, di una terra illuminata dal sole dura e aspra, ma capace di dolcezza senza fine. E lei desiderò perdutamente di poter avere dei ricordi simili nei propri occhi.
E così, incurante delle numerose controfferte e dei disappunti manifestati più o meno violentemente, lasciò il bordello.
Si portò via poche cose, che si premurò di far viaggiare nel tempo attraverso le donne della mia famiglia e che, finché fu in vita, cercò di condividere con il maggior numero possibile di altre donne, per fare in modo che il seme dei desideri sbocciasse di nuovo dentro di loro e dentro i loro uomini.
E ora tocca a me. Custodisco come reliquie quella prima giarrettiera della raggiunta età adulta e i suoi diari, sfogliati negli anni durante notti insonni da mani gentili e palpitanti, che acquistavano e rendevano maggior splendore ad ogni sfioramento.
E, dulcis in fundo, una splendida vasca da bagno in porcellana con i piedini di metallo a forma di zampa di tigre. Grande, sfacciatamente grande per l'epoca in cui era stata costruita, ma nel bordello il suo bagno era la stanza che preferiva, da sola e in compagnia, e voleva che la rispecchiasse.
Per farla entrare in questa casa, ho dovuto buttare giù e ricostruire due porte, ma volevo a tutti i costi far rivivere quella stanza. Grande e con pochi mobili grezzi di legno dal colore morbido, la vasca al centro, racchiusa da un baldacchino con una nuvola di tende di velo color porpora, le candele sparse qua e là e in fondo, sulla parte di fronte, solo uno specchio a ricoprire l'intero muro.
Mi ci sono dovuta abituare a questo grande occhio curioso che mi sembrava mi spiasse nei momenti più personali, finché mi sono accorta che dietro quella grande indiscrezione, in realtà, c'ero soltanto io.
E così, giorno dopo giorno, dopo ogni successo e dopo ogni sconfitta, dopo ogni notte di sesso e dopo ogni addio, ho cominciato a sentire quasi la necessità di questo incontro privato.
Ogni volta il bisogno si esprimeva con lo stesso inconsapevole rito di vestiti tolti in fretta che raccontavano al parquet la giornata di lavoro, la serata elegante o la nottata bollente. A volte solo l'evanescente ombra dei piedi nudi.
Ogni volta aggancio i miei occhi solo quando mi ci trovo di fronte, nuda e in piedi, e spesso mi scopro a guardarmi con espressione severa. Lo sguardo scorre poi sul corpo leggero e insistente, per scoprire i segni lasciati dalle emozioni, ma solo dopo il campo visivo si allarga, si mette a fuoco e ad aspettarmi sempre paziente e accogliente c'è lei. La vasca. A questa vista anche lo specchio sorride rassicurato.
Non c'è traccia di automatismo nei movimenti quando mi chino o mi alzo sulle punte ad accendere le candele nei posti più scomodi. La sensazione di ripetere gesti già insiti negli oggetti mi pervade quando scosto la porpora e mi siedo sul bordo, facendo scorrere l'acqua dal rumore un po' metallico del rubinetto di acciacco lucente. Il tempo si ferma quando con gesti circolari faccio scivolare olio e petali di rosa nell'acqua insieme ai pensieri della giornata. La musica del mignolo ingioiellato parte da sola nella mia testa quando mi immergo. E sto bene.
Dopo una giornata col sapore di asfalto caldo e carte bollate, mi ritrovavo giusto in questo stato di grazia mentale quando... una strana sensazione... nella mente non c'erano più nere mani su tasti avorio, ma un'altra melodia, conosciuta sì... ma della quale rincorrevo il titolo dietro gli occhi chiusi senza raggiungerlo.
Quando ho riaperto gli occhi in mezzo ai vapori e al profumo di rose... sorpresa! Lo specchio mi ha fatto vedere una stanza diversa, con pareti di legno dalle larghe assi e cuscini e asciugamani rossi. Dalla finestra alla mia sinistra entrava una luce giallo bruciato e il panorama si perdeva in un'interminabile distesa deserta. L'aria correva sul suolo bassa e caldissima facendo rotolare cespugli rotondi di rovi secchi e unica forma di vita visibile, sul lato sinistro della finestra, un cactus dalle spinose braccia polpose si stagliava nell'azzurro cobalto così nitido da sembrare disegnato.
Gli occhi sono corsi repentini e interrogativi intorno alla stanza e di nuovo allo specchio per capire se fosse vero o se quello che vedevano esisteva solo nel riflesso, ma non ebbero il tempo di trovare una risposta perché un rumore di passi, seguito da un pungente tintinnio come di speroni, li costrinse a girarsi in attesa verso la porta.
Una mano sulla maniglia, un attimo di titubanza tradito da un leggero schiarimento di gola, un leggero cigolio... e la porta si è aperta.
Figura in controluce di un uomo, imponente ma non minaccioso, con uno strato di polvere sopra il cappello marrone e sui vestiti.
Mi accorsi con stupore di non essere sorpresa di quell'arrivo. Lo aspettavo.
Da sopra il fazzoletto annodato strettamente dietro la nuca a proteggere il naso e la bocca dal sapore acre del viaggio, brillavano due occhi accesi, con un'espressione così fiduciosa da far capire immediatamente che non gli era mai accaduto nulla di male.
Mi alzai in piedi dentro la vasca facendo scivolare quegli occhi lungo il corpo come l'acqua che fluiva via, lasciandomi puntellata di petali di rosa che si adagiavano ostinati e disordinati sulla pelle.
A spezzare l'immobilità della scena, i miei passi gocciolanti sul tappeto fino a lui e le mie mani imperlate d'acqua che corrono a togliere il cappello e ad allentare il nodo dietro la nuca.
Occhi negli occhi.
L'acqua si fa imprigionare dalla polvere della camicia mentre in fretta slaccio i bottoni, impaziente di imprimere le labbra sulla pelle.
Una mano che mi stringe il collo da dietro e un'altra che scivola lungo la schiena fino al sedere mentre l'acqua e la terra si fondono in un bacio lungo e primordiale.
Sorrido mentre lo guido fino alla vasca, accorgendomi che i vestiti a terra questa volta non sono miei. Sorride, quando lo invito a stendersi con la schiena sul mio petto e il suo corpo racchiuso dalle mie gambe. Sorridiamo entrambi quando incontriamo i nostri sguardi nello specchio e lui si lascia andare al mio tocco. Comincio a massaggiarlo sopra e sott'acqua, con le mani e con le gambe, strofinandomi su di lui per fargli sentire quanto ogni parte di me lo volesse.
Ma poi l'impazienza, la voracità, la vertigine... mani che cercano cercano, toccano, frugano pizzicano, nel desiderio di toccare sempre più pelle. Sempre più pelle.
E la mia bocca, rossa e umida - O - golosa e dischiusa diventa immediatamente padrona assoluta del suo respiro, bollente e irregolare, e lo fa salire e scendere e salire ancora, trasformandolo in un grido.
E poi la sua di bocca, che cala implacabile su di me e cerca nuove strade da farmi percorrere insieme con lei, finché le gambe la stringono stretta per non lasciarla andare mai più. Mai più.
E mani che seguono, lingue che scavano, menti annebbiate, carne che si apre alla carne lasciando intravedere squarci di anima fino a diventare un unico corpo. O molti corpi. E nessuno al tempo stesso.
E poi il Piacere, che si scioglie liquido nel liquido e dita che si intrecciano per imprigionare l'infinito in un attimo e non lasciarlo scappare, finché l'urlo degli animali si trasforma in sospiri densi e spessi.
La grande vasca fa da spettatrice avida ai giochi bagnati, splendido calderone alchemico che trasforma un uomo e una donna in bambini. Ma sono gli occhi di un uomo e di una donna che si incontrano dopo, quando in ginocchio l'uno di fronte all'altra disegnano con le dita arabeschi d'acqua, incantesimi d'amore, sui corpi.
Sbircio lo specchio un'ultima volta prima di chiudere gli occhi e lasciarmi cullare da quelle braccia che ora sanno di lui, di me e di rose, e mentre il vapore si adagia sulle palpebre la musica si fa più chiara nella mia testa e mi raggiunge finalmente un ritornello - ...welcome to the Hotel California...such a lovely place... -
DLIN DLON!
Il suono imperioso del campanello mi fa sobbalzare e mi riporta alla coscienza, immersa nell'acqua ormai fredda. Intorno a me tutto ha riassunto l'aria familiare e rassicurante a cui sono abituata. Un sapore stranamente dolce in bocca e il sorriso nel cuore mi costringono a valutare l'ipotesi di non aver solo sognato.
Ma...ah! il campanello suona ancora!
Mi alzo e mi avvolgo in una spugna color mezzanotte e guardo allo spioncino.
E' il nuovo vicino di casa, con una tazza colma di zucchero in mano per restituirmi quello che gli avevo dato qualche giorno prima.
Gli apro e lo faccio entrare. Gli occhi negli occhi.
La stessa espressione fiduciosa, ma niente polvere su di lui, solo kilometri di vita nel cuore per arrivare fino a quel momento.
Sulle labbra gli spunta un sorriso imbarazzato e ingolosito quando lascio cadere l'asciugamano e il mio profumo si espande nella stanza.
Comincia a spogliarsi e mi segue quando mi dirigo verso il bagno, ma si ferma sulla porta mentre io seduta sul bordo lascio scorrere via l'acqua del mio sogno e ne preparo dell'altra per un sogno nuovo. Per un attimo guardo nel riflesso il quadro formato da noi insieme e dal mio viso sorridente, ma mi accorgo che lo specchio mi strizza l'occhio malizioso.
Forse dalla nonna non ho ereditato solo la vasca!
(grazie E. Se non fosse stato per te questo racconto non esisterebbe.
Grazie per il tramonto sul mare, per avermi fatto - dormire - in una delle stanze dell'Hotel California con te, per essere entrato nella mia vita...)
Banshee