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Racconto n° 3414
Autore: LaPassiflora Altri racconti di LaPassiflora
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Le mie mani stavano tremando, non riuscivo a stare ferma. Seduta al tavolo da lavoro, continuavo a rovistare tra le carte in cerca di un segnale, di un indizio qualunque che catturasse la mia attenzione e allontanasse la mia mente da quell'uomo.
Erano due settimane che non avevo sue notizie, mi stavo convincendo che si fosse già stancato di me, non ne avrei saputo più nulla, sarebbe finita lì, velocemente, in maniera non proprio indolore, esattamente come era cominciata. Dopo avermi rassicurata che ci saremmo incontrati di nuovo, dopo quella notte insensata a casa sua, non si era fatto più vedere né sentire.
Si chiamava Philip, impossibile dimenticare il momento in cui l'aveva detto, mentre ero rinchiusa nella sua auto, in un garage e al buio, mentre la mia mente e il mio corpo erano occupati in ben altro.
Capire, sentire.
Philip era sembrato subito l'uomo carismatico che ogni donna avrebbe voluto incontrare almeno una volta nella vita, parlava con voce profonda, si accertava che le sue parole arrivassero precisamente alla meta; ascoltando ne ero rimasta scossa, perché i suoi discorsi non erano affatto frasi banali soltanto per dire qualcosa e darsi un tono, ma facevano intuire chiaramente una certa fermezza della sua persona, una sicurezza che lo distingueva e colpiva in pieno petto.
A rifletterci, probabilmente non era l'uomo giusto per qualsiasi donna, qualcuna avrebbe potuto definirlo arrogante e addirittura detestarlo, ma non appena l'avessero scrutato con lo sguardo era quasi inevitabile riconoscere in lui una tale sfrontatezza da destare un certo fascino. I suoi occhi apparivano intriganti e sarebbe stato logico considerare che, dopotutto, non poteva essere così male lasciarsene circuire.
Un uomo come Philip, dicevo a me stessa, dava l'impressione di essere un habituè di importanti cene d'affari e di donne altrettanto compite, con la loro pochette da passeggio e l'aspetto inappuntabile.
Non avevo possibilità che si interessasse a me seriamente, potevano dire che non mi mancasse niente ma al più potevo rappresentare un piacevole diversivo per lui, una distrazione dalla solita routine come dalla sua vita. Non un granché insomma e l'idea non mi piaceva per nulla. Dopo quella notte assurda, credere che non ci fosse più niente da aggiungere stava attanagliando le mie giornate, facendosi strada in me una sensazione infinita di perdita con sempre maggiore insistenza.
Anche quel giorno, di fatto, ero uscita di casa convinta che fosse il momento di voltare pagina e di ricominciare a guardarmi intorno.
Quando la sua voce arrivò dall'altro capo del cellulare come in un sogno fumoso era quasi l'una di notte, mi chiamava per dirmi che voleva vedermi subito, si era presentata un'occasione che non poteva essere rimandata, dovevo vestirmi in fretta e raggiungerlo. Sarei stata presentata ad una coppia di persone per essere aiutata, Philip infatti ricordava quanto avevo detto quella notte sul mio stato di inquietudine, non so perché ma sembrò naturale allora raccontargli della solitudine in cui ero precipitata dopo il divorzio.
Come era potuto venirmi in mente di raccontargli tutto, mi stavo dicendo a quel punto, dovevo essere impazzita. Philip mi rassicurò come già l'avevo visto fare, e mi disse che si trattava di gente speciale, persone che sarebbero rimaste in città per altri due giorni ancora e poi sarebbero ripartite, e lui, lo era appena venuto a sapere; Amburgo li aspettava e non ci sarebbero state altre occasioni a breve per conoscersi, dovevo decidermi subito, come quella notte.
- Per come stanno le cose, se ne può parlare anche domani allora, - gli risposi intenzionalmente con tono piccato, manifestandogli in verità più di quanto avrei voluto che fosse, mostrai quanto avessi pensato a lui in quelle settimane e quanto mi dolesse ammetterlo.
Lui rise, semplicemente rise. - Domani ho altri impegni, che fai allora, vieni adesso? È una notte splendida.
Mi domandai con angoscia e confusione se non fosse meglio rifiutare, e no- certo che no- mi dissi, se lo avessi fatto non me lo sarei perdonata. Philip d'altra parte sembrava sinceramente contento di sentire nuovamente la mia voce e benché la sua proposta apparisse assurda, la valutai sempre meno sconsiderata del nostro primo incontro, d'altra parte la mia curiosità era stata stimolata anche più di quanto necessario. Philip mi stava offrendo la possibilità di rivederlo senza mostrarsi troppo diretto, capivo che non intendeva spaventarmi, sebbene mi ripetessi che oramai c'era ben poco che restasse da nascondere, l'attrazione che provavo era palese e lo era stata sin dal primo momento. Continuavo a pensare a quella notte in casa sua e sembrava una cosa impossibile, non accaduta a me, mi dicevo che non c'ero stata davvero, non ero io quella donna, l'aveva soltanto immaginata. Non avevo realmente ansimato tra le braccia di quell'uomo, incollando la mia bocca alla sua, era stato tutto così incredibilmente irreale, così veloce... Perché Philip aveva scelto me? Come era successo? Me la ero forse andata a cercare senza rendermene conto?
Era fuori discussione, sembrava semplicemente pazzesco quello che ricordavo.
Philip aveva cercato di farmi sentire al sicuro sin da subito, nonostante le apparenze dicessero il contrario, non aveva fatto altro che ripetermelo per tutto il tempo, da lui non avrei mai avuto nulla da temere, diceva, qualunque cosa fosse accaduta mi sarebbe piaciuta. E così era stato, in effetti, avevo avuto modo di appurarne la verità quella stessa notte, tutto era diventato inevitabile su quella terrazza sotto le stelle.
Mi affrettai a rispondergli: - Va bene, dammi mezz'ora e sono pronta. Dove sei?
- Sulla Grote Markt. Ti aspetto. - Riattaccò subito dopo.
Pensavo che il cuore sarebbe esploso nel petto da un momento all'altro, pompava talmente forte che non ricordavo più quando era stata l'ultima volta che avevo tremato in quel modo prima di recarmi a un appuntamento. Ero felice, mi sentivo euforica.
Feci una rapida doccia e optai per un vestito leggero di chiffon nero con alcuni fiori brillanti appuntati sul corpetto, una stola intrecciata di seta e un paio di decoltè dall'aspetto semplice: un piccolo regalo che mi ero concessa un mese prima, per il mio compleanno, dietro suggerimento di una cara amica. Era stata una fortuna averle dato retta, quell'abito capitava a proposito e le scarpe erano comode ma oltremodo eleganti. Pensai che quell'abbigliamento fosse una scelta opportuna, immaginando il tipo di persone a cui Philip voleva presentarmi. Due professoroni venuti ad Anversa per presiedere alla conferenza sulle dinamiche del corpo e della mente. La manifestazione si era avuta il giorno prima, presso l'Istituto Superiore di medicina alternativa, i giornali ne avevano parlato in continuazione. Ricordavo ancora i titoli a caratteri maiuscoli che già nelle settimane precedenti avevano invaso pubblicità e manifesti. I francesi si confermavano un popolo sempre interessato al rapporto con la natura, alla difesa dei suoi diritti, e una prassi terapeutica che aspirasse a una riconciliazione con l'identità naturale si prospettava come un'aspettativa entusiasmante.
La conferenza era stata effettivamente affollata, molta gente si era radunata per la strada, nei pressi dell'imponente gradinata che dava accesso all'Istituto, con la speranza di poter assistere in diretta ad un'intervista con qualche organizzatore.
Ed io stavo proprio per incontrare l'uomo e la donna che erano stati la ragione di tutto, due personaggi noti, ammirati dalla folla almeno quanto venivano discussi. Secondo alcune voci, la metodica alternativa non era abbastanza ortodossa, gli esponenti del partito conservatore definivano le pratiche di riconciliazione del corpo con gli istinti soltanto delle melliflue istigazioni, io dal canto mio avevo sempre ritenuto che il timore del conformismo fosse sistematico di fronte al progresso e al cambiamento, quest'ultimo appariva immancabilmente come una minaccia rispetto al vecchio sistema, l'opposizione faceva parte del gioco, e, ne ero certa, le persone che stavo per incontrare dovevano averne un'idea ben precisa.
Mi sentivo emozionata e incredula in vista di ciò che si presentava, di nuovo stava capitando a me ed era tutto merito di Philip, quell'uomo era una continua sorpresa per me, mi metteva nella condizione di una bambina che aspetta di scartare il suo regalo di Natale. Da giorni ero ormai convinta di essere stata fortunata, avevo avuto l'occasione di avvicinarmi a lui.
Quando due settimane prima decisi di provare una lezione nella nuova scuola di danza, non avrei mai immaginato quanto sarebbe accaduto dopo, ero stanca della scarsa flessibilità di orario della vecchia palestra e poiché non riuscivo ad integrare i tempi con le necessità del negozio, considerato che inoltre non potevo permettermi di chiudere in anticipo, ripensai a un volantino trovato sotto il tergicristallo dell'auto prima di rassegnarmi all'inattività cronica e mi persuasi che avrei dovuto cambiare palestra una buona volta.
Il depliant spiegava che la scuola era fortunatamente dietro l'angolo rispetto al negozio, avrei potuto raggiungerla senza troppe difficoltà, promuoveva tra l'altro un abbonamento completo a prezzi ridotti per i primi che si fossero iscritti, riportava gli orari di apertura al pubblico. Fino a mezzanotte avrei avuto tutto il tempo che volevo, ci pensai su e poiché a casa non mi aspettava nessuno, decisi di andare direttamente quella sera.
Erano le nove, avevo fame, e pensai che prima della palestra avrei mandato giù un boccone, passai quindi a un ristorantino che conoscevo bene, nei pressi della storica abitazione di Rubens, il piccolo locale di Françoise mi era sempre piaciuto. La vecchia tappezzeria di velluto antichizzava l'ambiente con le sue tinte rosa, le ondate grigie del traffico scomparivano con un salto nel passato. Negli anni 30, dove il piccolo bistrot sembrava essersi fermato restituendone l'atmosfera, calda e accogliente, mentre come ogni sera Fabian suonava il piano intonando la Vie En Rose.
Non appena sedetti al tavolo, all'angolo con la vetrata notai un uomo non molto distante da me, era Philip, di fronte un piatto di roast-beef su un letto di asparagi, la mia curiosità venne destata vedendolo senza compagnia, teneva lo sguardo avanti a sé fissando le risonanze rosse del vino, non sembrava avermi notata. Il liquido scuro gli nascondeva una parte del viso, pareva del tutto assorto nei propri pensieri finché non fu il momento in cui mi accinsi a pagare il conto, avevo preso insalata di pollo e carote alla julienne e un cameriere si avvicinò per informarmi che - Il Signore - aveva già provveduto, accennando con un gesto ossequioso in direzione dello sconosciuto. Philip sorrise di rimando, indicando il proprio tavolo e facendo segno di raggiungerlo.
Sorrisi, per forza di cose, la situazione aveva preso una piega inattesa, ero perplessa. Lusingata e perplessa. Intimamente allettata, ero comunque decisa di non dare ad intendere, me ne andai in direzione dell'uscita dopo aver pagato il conto a mia volta con la ferma intenzione di non accettare.
Il maitre acconsentì a prendere in consegna il denaro, ripromettendo che l'avrebbe restituito al generoso cliente, e ciononostante la circostanza mi fu insopportabilmente fastidiosa, quell'uomo mi aveva deliberatamente messa a disagio e non ne sopportavo l'evidenza. Sentivo i suoi occhi incollati addosso, il suo sorriso stampato in faccia che dava l'impressione di godersi, mi convinsi, che era proprio così.
Uscii mentre Philip era ancora al tavolo, e non appena fui fuori, presi una gran boccata d'aria, non me ne accorta ma per dei lunghi minuti avevo smesso di respirare, all'esterno l'aria era fresca e mi piacque, la mite brezza di giugno mi accarezzava la pelle. Anche se avrei dovuto capirlo, non potevo immaginare che Philip non si sarebbe certo accontentato di come erano andate le cose, un uomo come lui non si sarebbe arreso facilmente di fronte al rifiuto di una donna. Era evidente che si divertisse nel ruolo collaudato del cacciatore ed era altrettanto lampante quanto quell'atteggiamento mi urtasse, non avevo mai sopportato le persone che davano per scontata la disponibilità degli altri, ero seccata che Philip avesse indovinato il mio interesse con tanta facilità. In seguito capii, che se non mi fossi tanto complicata la vita ostentando una superiorità che non avevo e avessi osato con un po' più di savaoir-faire, probabilmente tutto si sarebbe risolto in un altro modo, invece ero stata il pane per i suoi denti. Avevo finto di volergli sfuggire, con la consapevolezza al tempo stesso che non mi fosse affatto indifferente.
Philip mi seguì fuori dal locale lungo il viale dei platani, fino al secondo incrocio, e prima che arrivassi alla scuola di danza mi sentii chiamare. La sua voce mi giunse alle spalle, - aspetti - disse, senza avere il tempo di replicare mi ritrovai ad ascoltare la ragione della sua comprensione per il mio imbarazzo, diceva che aveva notato il mio sguardo interessato e me ne era grato, al punto che si era domandato perché nascondersi e non mostrarsi, invece, senza nessuna ipocrisia, desiderando sapere cosa mi avesse attratto.
Me lo domandò con la stessa naturalezza di chi interroga un passante chiedendo quale autobus si fermi a quell'ora, e intuii che poteva essere un uomo completamente disarmante.
Possibile che al ristorante mi fossi tradita in tal modo, mi rimbeccai. Non risposi alla domanda, e Philip per contro si fece ancora più temerario, guadagnava terreno dalla mia incertezza, passò dal lei al tu in men che non si dica, e si ripeté, scandendo ogni parola, fissandomi negli occhi: - cosa ha attratto il tuo sguardo?
Potevo forse dirgli che avevo notato un uomo affascinante, ma mi era sembrato strano vederlo senza compagnia, per di più in un posto elegante come da Françoise, mi sarei sentita morire e quindi non dissi nulla. Non afferrai come ci stesse riuscendo, Philip mi fece sentire umiliata, a maggior ragione per il fatto che lui non sembrava occuparsene, ma, anzi, ne appariva soddisfatto.
Per cavarmi di impaccio, alla buona, fieramente sorrisi e dissi: - Si sbaglia senza dubbio, non so chi lei sia e non mi piace affatto che mi si rivolga con tanta invadenza, per di più spacciando una tale arroganza per cortesia. Per favore, vada via, mi lasci stare.
Non avrei saputo essere più categorica, diedi un taglio netto a quella assurda conversazione, Philip non impiegò molto però a farmi capire che aveva tutt'altra intenzione, non la pensava di certo allo stesso modo o non ci sarebbe stato altro da aggiungere.
Si fece una gran risata e mi guardò con benevolenza, ancora maggiore di un attimo prima, se possibile; era un uomo veramente arrogante e mi fece sentire ulteriormente a disagio lasciandomi intendere che non credeva a una parola di quanto gli avevo detto.
Lo squadrai di rimando inferocita, poco ci mancò che non urlassi cercando di convincere più me stessa che lui, ma soltanto più tardi mi dissi, che se fossi scoppiata anch'io in una risata tutto sarebbe filato liscio, forse avrei sgonfiato la sua faccia tronfia.
Proseguii quindi senza voltarmi, la strada continuava in linea retta avanti a me, pochi passi e sarei arrivata all'entrata della scuola, ma non feci mai in tempo tuttavia, prima di incontrare Schuttershotstraße Philip mi si scaraventò addosso facendomi morire di paura. Non emisi un fiato dalla bocca, ero talmente atterrita da quanto succedeva che riuscii solamente ad allertarmi per il suo corpo così vicino al mio. Mi tirò per un braccio all'interno di un palazzo e ci ritrovammo giù per le scale di un garage di servizio, sembrava fuori uso, quasi me la feci sotto dalla paura. Tentai in ogni modo di divincolarmi dalla sua presa, ma Philip era più possente di me e naturalmente doveva aver già calcolato ogni mia prevedibile mossa. Mi si premette contro tenendomi ferma, schiacciandomi tra sé e il muro, eravamo ancora sui gradini, sotto il livello stradale, la scala era male illuminata dalla luce bianca dei neon e il garage era immerso nella più profonda oscurità, un senso di terrore indefinito mi offuscò la vista.
- Lasciami! lasciami.. – sbraitai; la paura mi spezzava la voce. Cosa voleva quell'uomo da me, continuavo a chiedermelo inconsolabilmente, ma potei laciare solo un grido smorzato e lancinante.
Philip mi asserragliava il corpo con le braccia, tuttavia sembrava mantenere la calma, pareva avesse la situazione sotto controllo, mentre io imperversavo dentro il panico. Guardai fissa i suoi occhi, lo implorai di lasciarmi andare, Philip di rimando mi sorrise con una strana indulgenza e disse che non mi avrebbe fatto alcun male, voleva solo che non ci perdessimo, cosa che sarebbe stata in effetti alquanto facile dato che ancora non ci conoscevamo.
- Cosa...? Sei un bastardo, lasciami!
Non ero certamente ragionevole, ma chi lo sarebbe stato nelle mie condizioni.
Philip mi tappò la bocca e allora capii di non avergli dato scelta, portò una mano sulla mia faccia e mi tenne stretta. Ero bloccata contro il muro, mentre lui cercava il più possibile di farmi restare immobile e intanto mi parlava.
- Non muoverti, o finirai per farti male da sola.
Le lacrime cominciarono a scendere, le sentii sulle mie guance, ero spaventata a morte e non lo stavo ascoltando. - Lasciami, lasciami... - supplicavo, per lo più nella mia mente, perché a quel punto riuscivo solo a mugugnare.
- Ti lascerò andare, sta tranquilla, se davvero vorrai ti lascerò andare e tornerai alla vita di sempre, ma se è davvero questo quello che vuoi dovrai dimostramelo.
Lo fissavo inorridita, senza pensare con vera logica, ero sconvolta. - Non urlare - diceva - o mi costringerai a tapparti la bocca di modo che farti sentire non sarà poi tanto facile. Non voglio arrivare a questo, non obbligarmi a farlo. Ti ho detto che non devi preoccuparti. Te l'ho detto e te lo ripeto, non ti farò del male né adesso né mai. Adesso ti lascio andare piano, dipende soltanto da te decidere come conviene comportarti. Se resterai calma eviterò di bloccarti le mani e non ti chiuderò la bocca.
Così disse e così mi liberò dalla sua mano pressata sulla faccia, le lacrime continuavano a scendere e sentivo che la speranza se ne stava andando. Il cuore mi martellava nel petto, non riuscivo a parlare chiaramente, singhiozzavo, non potevo lanciare richieste di aiuto, avevo paura di provarci. Stavo cominciando a ripetermi che sarebbe stato meglio restare calma, con la mente fredda avrei potuto contare almeno sulle mie forze e sulla mia prontezza, considerando come si erano messe le cose non c'era altro da fare.
- Cosa vuoi da me? – chiesi implorando - ti prego, non sono nessuno, lasciami andare. Ti prego! - Piagnucolavo con evidente smarrimento e notai che Philip mi stava osservando con note d'ansia crescente, aveva la fronte corrucciata, era teso e sembrava più vecchio di quello che era. Considerai, quanto fosse incredibile che le emozioni si svelassero attraverso i lineamenti.
- Perché? - dicevo - perché... - chiedevo senza aspettarmi di certo una risposta.
Philip disse: - Ho capito subito che eri speciale, difficilmente sbaglio a valutare le persone. So che in questo momento sei molto spaventata, hai paura che io sia un pazzo o un maniaco o un rapitore e non riesci a vedere più di quanto non si vede. Io credo, però, che ci sia molto di più che ci sta aspettando. Davvero molto di più, se tu lo vorrai. Perché alla fine sarai tu a volerlo, vedrai, basterà conoscersi un po' più a fondo. Io lo so, anche se ora tu non capisci di cosa sto parlando, dovrai fidarti per capire dove puoi arrivare. Voglio che ora tu mi segua, in silenzio, senza tentare di scappare nonostante sia convinta che venire con me sarebbe la tua fine. Ti sto chiedendo molto, è vero, ma non ti nascondo che se rifiuti, sarò costretto a obbligarti e non voglio farlo, credimi, questa situazione non è piacevole né per te né per me.
- Sei un pazzo! - imprecai.
Furono le uniche parole che riuscii a pronunciare prima che il respiro mi si mozzasse in gola. Philip mi spintonò verso un angolo del piano interrato stringendosi addosso, tirò fuori dalla tasca un fazzoletto candido e ben ripiegato e ne fece una palla grande come un pugno, mi costrinse con brutalità sconcertante ad aprire la bocca e ad ingoiarla fino a richiudere la corona dei denti. Pensai di soffocare. Scalciavo, ma non potei fare altro che eseguire quello che mi diceva, la sua presa era ferrea nonostante io continuassi a lottare con tutta la forza che avevo in corpo. Provai a liberarmi e a fuggire non so quante volte, ma quella palla mi venne ugualmente pressata sotto il palato. Stavo per vomitare, ricacciai indietro tutto per evitarmi di soffocare e ingoiai l'angoscia, non riuscivo più a pensare a nulla, Philip mi stava braccando dimostrando destrezza e pratica, il che - non so come - mi spaventò ancora più di quanto già non fossi.
Con risolutezza almeno pari alla mia, mentre continuavo a dimenarmi convulsamente, Philip mi cinse la vita e mi impedì di far uscire anche un solo grido. Mi sembrava che le forze mi abbandonassero, il mio corpo non apparteneva più a me, percepivo le sue braccia, il suo petto, le sue gambe contro la mia esile figura e, era assurdo, il mio corpo registrava quel contatto in un modo che non soltanto era orribile ma totalmente sconcertante. Mi eccitava.
Mi disturbava.
Tiravo calci con pieno accanimento e di sicuro l'operazione si complicò non poco, diedi un morso con cattiveria alla sua mano destra e impiegai ogni mezzo a mia disposizione per liberarmi, ma senza nessun concreto risultato, ero ancora lì, non ero riuscita a sgattaiolare via da quella presa che pareva d'acciaio. Philip però non si scompose, non si allarmò per nulla, tranquillamente mi sfilò il foulard dal collo e completò l'opera, avvolse quel pezzo di stoffa ben stretto intorno alla mia testa, impedendomi di sputare fuori sia l'aria che l'immondo fazzoletto. L'agitazione mi stava creando seri problemi, un'azione che avevo sempre ritenuto semplice come respirare, diventò impossibile, compresi che ne avevo sempre sottovalutato l'importanza, in quel momento spargevo solo suoni scarsi e tristi rantolii.
Alla fine la lotta mi infiacchì, ebbi la sensazione di sprofondare, ma cosa altro avrei potuto fare, non mi venne in mente niente e mi sentii infinitamente stanca. Philip aveva preso posizione in mezzo alle mie gambe, si teneva tra i miei piedi mantenendoli adeguatamente distanziati l'uno dall'altro, con l'apertura larga delle cosce mi abbassai un paio di spanne rispetto a lui e l'equilibrio già precario si ridusse ancora a causa di tutto quel movimento, ero completamente vulnerabile.
Non potevo sottrarmi, non riuscivo a sferrare un vera difesa, ero serrata, in trappola, e mi scoraggiai.
Philip non replicò, non sarebbe servito, mi strinse quanto bastava con un braccio e mi trascinò dentro il garage.
In quel posto abbandonato teneva parcheggiata la sua auto, e mi domandai se fosse stato tutto premeditato, la Maserati era nuova di zecca e mi fece pensare che forse quell'uomo era abituato ad avere tutto ciò che si poteva desiderare, riteneva veramente di potersi prendere qualunque cosa e basta.
L'auto non sembrava rubata e i suoi modi, benché inaccettabili, si dimostravano comunque sempre calcolati e attenti, celavano una profonda sicurezza.
Non sapevo rispondere, cosa potevo dare a quell'uomo che non avrebbe potuto comprarsi con i suoi soldi?
Mi costrinse a salire sulla sua auto e subito udii la chiusura elettrica delle portiere che veniva attivata. Nessuno era lì con noi, nessuno sapeva che una volta finito al negozio, avevo deciso di avventurarmi verso la nuova scuola di danza del quartiere, nessuno avrebbe potuto sentirmi nemmeno se avessi potuto gridare. Con gli occhi stavo supplicando Philip, lui mi guardava senza parlare, non aveva mai smesso di osservarmi, teneva lo sguardo fisso su di me, una mano sul volante e l'altra appoggiata sul sedile, almeno finché non la vidi spostarsi per regolare il sistema di condizionamento nell'abitacolo.
Cercavo di mantenermi a distanza sebbene lo spazio fosse angusto, con le spalle appoggiate al finestrino ricordai di avere le braccia e le gambe libere, se soltanto avessi saputo cosa fare senza provocare la sua rabbia. Temevo una reazione violenta, così me ne stetti ferma, impaurita, aspettando non so che cosa.
Philip non meditò di mettere in moto, resto lì insieme a me e ci scrutammo per lunghissimi minuti. Non respiravo bene con quella trappola in bocca, ansimavo, e le lacrime non facevano che peggiorare la situazione, tuttavia dovevo restare calma, mi dicevo, dovevo mantenere il controllo, essere forte e farmi coraggio, dovevo provare ad assecondarlo per prendere tempo e per cercare di fuggire il più lontano possibile.
- Mi piacerebbe sapere il tuo nome – disse, quale sarcasmo, pensai, - ma capisco che per adesso dovrò accontentarmi. Io sono Philip e te lo assicuro un'altra volta, non agitarti, non hai motivo di temere nulla da me, non ho nessuna intenzione di farti del male.
Sentivo che quella sensazione strana mi assaliva ancora, Philip mi stava parlando con voce calma, paziente, mi guardava come se fossi una bambina troppo impreparata per lasciarmi convincere. Ma qual'era la lezione che voleva davvero che imparassi? Era uno squilibrato e non volevo credere di essere stata tanto stupida da lasciarmi avvicinare, ripresi a lamentarmi, il respiro accelerò per il panico, le tempie iniziarono a pulsare come se fossi impazzita, portai le mie mani alla bocca e feci il gesto di volermi liberare da quella costrizione che mi stava asfissiando. Philip mi bloccò afferrandomi i polsi, - ferma! – disse, squadrandomi con ammonimento, - non avrei voluto arrivare a questo, non in questo modo..., ma non mi hai dato scelta, - aggiunse, e capii dai suoi occhi che stava pensando a qualcosa di molto preciso, qualcosa che non osavo immaginare. La paura mi attraversò all'istante come un'ombra nera, era difficile se non addirittura impossibile restare lucida e per di più cosciente.
- Ti libero, se prometti di comportarti bene.
Figlio di puttana, pensai tra me e me, toglimi questa roba di dosso. Bastardo! Feci comunque un lieve cenno con il capo, finsi di acconsentire a restarmene buona, non avrei detto nulla, ero intenzionata ad assecondarlo, ritenevo che fosse la cosa migliore per riavere la mia libertà.
Philip iniziò a sciogliere il nodo al lato sinistro del capo, appena prima del mio orecchio, lo aveva stretto con accuratezza e disfarlo non era un gesto veloce, fu quindi necessario che la sua mano raccogliesse il mio mento nel suo palmo, affinché mi girassi con il collo meglio che potevo per l'operazione. Accompagnò la mia testa verso destra ma senza metterci forza, anzi, la delicatezza che impiegò in quel gesto finì per sorprendermi di nuovo, aveva sempre un aspetto rilassato e soddisfatto, questo mi trasmise una strana serie di brividi. Era di nuovo così vicino, troppo vicino, la sua acqua di colonia stava riempiendo le mie narici, sapeva di buono, tutto il suo corpo in quel momento sapeva di buono, quasi addosso a me, così rasente il mio petto, ansavo, mentre lui emanava un calore rassicurante e inquietante insieme.
Raggelai, ma cosa diavolo stavo pensando, perché la mia mente registrava il suo odore adesso, cosa centrava, e perché non l'avevo sentito prima ma me ne accorgevo in quel modo?
- Non voglio farti del male - scandì ancora una volta in tono basso, la sua voce era profonda e calma, stavolta a meno di un paio di centimetri dal mio viso. Il suo alito mi sfiorava la pelle, era caldo, respirai a fondo, e me ne riempii i polmoni e la testa, non avevo scelta, mi sembrò che la realtà si confondesse. Philip mi stava osservando, mentre la fascia che aveva tenuto dolorosamente sbarrate le labbra, veniva tolta, scendendo lentamente dalla bocca al mento e dal mento al collo, rimanendo come un pegno umido nella sua mano. Un pegno bagnato dalla sorpresa e dalla sofferenza, una consapevolezza che mi fece arrossire di colpo considerando il paradosso della valutazione, non aveva senso. Niente aveva avuto senso per tutto quel tempo, era una situazione assurda, tutto era stato sconsiderato e contraddittorio sin dall'inizio.
- Per favore..., - dissi piano, il suo sguardo si fece ancora più vicino, troppo vicino, girai la testa verso il cruscotto e guardai per la prima volta attraverso i vetri dell'auto. Il garage era deserto, la zona era quadrata, da qualche parte brillava una luce fioca e bluastra che girava tutta intorno al perimetro. Doveva essere una lampada di emergenza, riflettei quindi, il posto era frequentato ed esisteva la possibilità che qualcuno arrivasse da un momento all'altro. Dopotutto non era troppo tardi, che ore saranno state, forse le dieci.
All'idea mi sentii confortare, dentro di me si accese una piccola fiamma di speranza, e tornai a guardare negli occhi il mio aggressore.
- Per favore... cosa ci facciamo qui, cosa vuoi da me?
- Conoscerti, - disse, - soltanto conoscerti e verificare se la mia sensazione è giusta, ma te l'ho detto non sbaglio mai. Non devi preoccuparti, non ho intenzione di causarti alcuna violenza, anche se te lo concedo, i miei modi non appaiono certo ortodossi,- lo disse e sorrise compiacente, un sorriso stupendo che mi costrinse a dubitare di ciò che significava nonostante il tono aperto delle sue parole.
- Io..., - balbettai, - non capisco... .
- Voglio che tu adesso mi dica la verità, - sbottò, esaminandomi attentamente, mentre quello sguardo scuro mi contrariava e trovavo il coraggio per sogghignare, i suoi neri occhi mi penetravano. Erano di un taglio orientale, non si accompagnavano al suo nome francese, ma gli altri tratti del suo viso dicevano che in lui c'era del sangue misto, forse iraniano. – Adesso, dimmi, eri attratta da me in quel ristorante?
- Cosa? – e lo vidi accigliarsi, - io... ecco, mi domandavo perché non fossi in compagnia di qualcuno, mi è parso strano in quel locale così elegante... però, forse capisco, - gioco forza il fatto che stessimo semplicemente parlando, mi sentii rincuorare, - non sei un tipo facile... - dissi, seccamente, e un pugno strinse il mio stomaco con una morsa che tornò a togliermi il fiato.
Sorrise, soddisfatto, - ti sei sentita attratta da me, quindi.
Che faccia tosta, pensai, che stronzo! mentre lui dichiarava tutta la sua arroganza e il suo potere di maschio, allontanandosi da me per darmene prova, riposizionandosi comodamente sul sedile di guida e creando fra di noi uno strano strato di vuoto, come se qualcuno mi stesse interrogando ben conscio che tanto non avevo ancora tutte le risposte, aprendo un varco ancora più ampio per lasciarmi confusa e profondamente in ansia.
Sentivo che continuava a scrutarmi, sembrava si aspettasse da un momento all'altro qualcosa da me, voleva vedere se stavo imparando la lezione, se la bambina piccola era stata avviata verso un altro difficile passo. Era completamente a suo agio, sereno, sapeva quello che stava facendo e non mi aspettavo, che all'improvviso me lo sarei ritrovato addosso, proprio sopra il mio petto. - Ti prego... ti prego... no... - annaspai.
- No cosa? - disse in tono aspro e duro, mentre incapace di trattenermi scoppiai a piangere. - Per favore... ti prego, lasciami andare...
Avevo nuovamente perso il controllo e mi odiai per questo, non era una buona mossa, dovevo serbare il terreno fino a quando mi sarebbe servito, ignorando la tensione che mi batteva sui nervi.
Philip increspò la fronte, comprensivamente, appoggiò un dito sulle mie labbra bagnate di muco e con gentilezza mi ricordò che era meglio per me se la smettevo subito, all'istante il mio pianto finì. – Ho paura -, dissi, era un sussurro, come se ammettere che ero spaventata potesse restituirmi un po' alla libertà e il mio corpo si potesse alleviare di un indecifrabile fardello.
- Lo so, lo capisco, - rispose con dolcezza, - davvero, credimi. È una situazione strampalata e comprensibilmente spaventosa, ma non ti farò alcun male. Non riesci ancora rendertene conto, ma puoi fidarti di me.
La sua faccia assunse un'espressione conciliante, aveva sinceramente intenzione di arrivare alla mia fiducia. Era chiaro, non mi avrebbe mai lasciata andare, ma stavo cominciando a credere sul serio che non mi avrebbe danneggiata nemmeno se gli fosse stato necessario. Non riuscivo a capire cosa pensassi realmente di quell'uomo, sebbene mi avesse rapita e imbavagliata, nonostante mi avesse costretta in quello squallido posto, mi infondeva una indefinibile certezza, sapeva benissimo quello che faceva. Perché questa sensazione? Me lo chiedevo, e pensai a quanto avevo sentito dire, l'orrore di certe situazioni trasforma le esperienze negative in realtà plausibili, pur di fare in modo che la coscienza accetti gli avvenimenti senza impazzire.
- Credi davvero che potrei riuscire a capire tutto questo? - C'era una nota amara nella mia voce e Philip parve accorgersene, perché mi rivolse un sorriso bonario, non credevo affatto che mi sarebbe stato possibile accettare quell'uomo, ma dentro di me, in fondo in fondo, da qualche parte, volevo davvero che accadesse, per un qualche motivo, altrimenti, calcolai, non ce l'avrei fatta.
- Sì. Sono sicuro che riuscirai a comprendere quanto siamo simili. Già ci compensiamo con le nostre differenze, anche se non te ne accorgi, so che avverti che in qualche modo siamo vicini.
Me ne accorgevo? Esisteva davvero qualcosa che mi legava a Philip in quella circostanza? Mi risposi che c'era una comune disperazione di voler afferrare l'altro, un desiderio condiviso di voler scendere nelle viscere di quanto stava accadendo, un terrore simile di compiere un passo falso e tuttavia la stessa esigenza di non lasciar andare quella vitalità sorprendente che sembrava aver cancellato quanto era esistito prima, in quel momento tutto il resto sembrava privo di importanza. C'era della credibilità nelle parole di Philip, ma per paura che la verità tradisse un legame che non poteva ancora essere svelato, distolsi gli occhi, - non è vero, - ribadii, - ti sbagli. Mi fa orrore tutto questo. Ma tu... ecco... tu sembri gentile, - giocai la carta dell'adulazione, quale uomo non avrebbe apprezzato, mi dissi, - sembri gentile nonostante tutto, una persona distinta... , faccio fatica però a conciliare questa sensazione con il fatto che sono stata aggredita e rinchiusa qua dentro, in un garage, al buio, dove non mi sento al sicuro.
Philip rise e rise di gusto, mi fulminò con lo sguardo, aveva capito che mi stavo prendendo gioco di lui. Le mie parole non suonavano possibili nemmeno a me, ma lui doveva credermi.
- Dico sul serio, perché non mi porti fuori di qui, se vuoi davvero che impariamo a conoscerci non può avvenire qui dentro, dove non c'è libertà di essere se stessi. - Il discorso filava e al contempo era inverosimile, ero davvero la donna che stava parlando e si proponeva a quell'uomo? Dove mai potevo voler andare con un individuo pericoloso che non dimostrava di farsi tanti scrupoli pur di ottenere ciò che voleva? Pensavo sul serio che me la sarei cavata o stavo cominciando a sragionare in preda alla paura? - Potremmo andare a bere qualcosa, - proposi, pensando che almeno in uno spazio altrettanto ristretto ci sarebbero state altre persone.
- Buona idea ragazza, ho già in mente un buon posto, purché tu non creda di farmi ubriacare e di riuscire a sedurmi per poi involartene chissà dove? Ah ah... - rise sguaiatamente, era davvero irritante. Trovava sinceramente la cosa divertente, ovvio! Cosa volevo fare? Dove volevo andare?
Non certo a casa sua, dove con mio orrore profilai di essere diretta quando ormai era troppo tardi. Mi sembrava che fossimo appena partiti, sulla strada l'auto si diresse verso nord, rimasi stupita e preoccupata quando imboccammo l'enorme cancello di una strada privata. Il tragitto era sembrato breve, aveva voluto sapere come mi chiamassi e ci avevo pensato un po' su, riflettendo se riferirgli o meno il mio vero nome, - Isabelle – avevo deciso, il nome con cui mi chiamava mio padre quando eravamo insieme, poi l'auto varcò un'inferriata automatica e percorse un lungo viale alberato.
- Ma, dove...
Non ebbi il tempo di finire la frase, Philip non me ne diede il tempo, precedette la mia domanda di rito riguardo al luogo dove mi aveva portata, - non agitarti -, semplicemente disse, il mio corpo aveva iniziato a tremare dalla paura. - E' casa mia, abito qui, abbiamo molto da dirci e nel nostro caso un posto discreto è quello che ci vuole. Per tua sola informazione, il sistema di sicurezza è collegato con la gendarmeria centrale in modo diretto, questo dovrebbe rassicurati, - disse, e mi scrutò un momento, - in parte... - aggiunse, - d'altro canto capirai presto che in casa non c'è nessuno. Un'ottima prova per entrambi non credi?
- Sei un maledetto bastardo! Stronzo! - Alzai rabbiosamente la voce, ero troppo sconvolta per pensare di non peggiorare le cose, lo colpii con violenza sferrando una raffica di pugni con tutta la forza che nel frattempo avevo raccolto, puntai immediatamente alla faccia e non nascondo che provai una certa soddisfazione, indirizzai le unghie proprio sotto gli occhi. Lo graffiai. - Ah! - sentii un lamento, dopodichè come era prevedibile me lo ritrovai addosso in men che non si dica, mi bloccò le mani in alto e con le ginocchia pressate contro il petto. Stupida! Stupida! Stupida! mi urlai nella testa. - Cosa pensi di fare? - mi investì Philip con voce alterata. - Se non collabori mi costringi ad adottare misure restrittive. È questo che vuoi? Può darsi che mi piacerebbe legarti di nuovo, ma non penso che sarebbe il modo giusto per cominciare a presentarsi, non credi? – mi provocò. - Parlarti, mentre sei imbavagliata e legata come un pacchetto di carne sopra il mio tappeto in salotto, sarebbe carino... rifletti Isabelle! non darmi motivo, anche se sono una persona molto paziente, potresti costringermi a farlo e lo sai.
Stavo tremando.
Philip non aveva certo bisogno di convincermi, era chiaro che non potevo fare altro che assecondare la situazione o sarebbe stato peggio per me, decisi quindi di darmi una calmata e seguirlo all'interno della casa. Il posto era incredibile, comparivano ovunque stucchi e rifiniture come in una antica dimora fiamminga, probabilmente quella casa era appartenuta alla prestigiosa casata dei Sangro. Restai stupita, - davvero vivi qui? solo...? - la domanda mi sfuggì di bocca. - Sì - rispose divertito, - fatta eccezione per la servitù che comincia a lavorare in casa la mattina presto, tornandosene giù, nell'ala est, a sera, dopo aver finito.
Spiegò e si compiacque per la mia curiosità, immaginando bene che la vicinanza approssimativa del personale potesse farmi sentire un poco meglio, sempre che fosse vero, pensai. Mi dicevo, in effetti, che se il personale di servizio non era lontano, Philip non avrebbe osato agire là dentro in maniera spropositata con il rischio di insospettire qualcuno. Qualunque fossero le sue intenzioni, per il momento potevo stare tranquilla, meno persone sapevano, meglio era per tutti.
Tuttavia un dubbio continuava ad assillarmi, nonostante la classe distintiva, Philip sembrava il tipo d'uomo eccentrico e stravagante che non si interessa del pensiero degli altri e nel caso fosse stato necessario, avrebbe saputo di certo come mettere a tacere una diceria o un fatto che spiacevolmente fosse accaduto, e quindi?
Passando su un pavimento incredibilmente lustro entrammo nel salone, mi sembrò anche più grande del mio appartamento in centro, la mia attenzione fu attirata dalla fastosità della tappezzeria e dei divani, dalla pelle lucida delle sedie e delle poltrone che mi impressionava per l'odore acre che emanava e per la pulizia, una pulizia fredda e nuova come se là dentro non fosse mai entrato nessuno. Immaginai la scena che Philip aveva descritto poco prima, io legata e imbavagliata in quel bel salotto di sfarzi e lusso, sentii un brivido bollente lungo la schiena. Sapevo che mi avrebbe guardata come un oggetto di antiquariato, prezioso, ma sempre un oggetto, il pensiero mi fece raggelare e arrestare in mezzo alla sala, non riuscivo più a muovermi, sarei voluta correre via e non mettere più piede in quella casa, tuttavia non potevo permettermelo. Non sarebbe stata una buona idea compiere uno scatto improvviso o una fuga, tra l'altro non ero riuscita a vedere cosa ci fosse là fuori, avevo a malapena scorto un giardino dal finestrino dell'auto, la mia mente per tutto il tempo era rimasta a scartare qualche infausta conseguenza a seguito dell'arrivo in quella casa.
Senza che Philip mi invitasse a sedere, mi accasciai su una poltrona colta da una spossante stanchezza.
Philip si avvicinò a una grande cristalliera e scelse un bicchiere per me e per lui, vi verso un liquido bruno e poi me lo porse, senza aspettare ne bevvi un sorso generoso talmente ne sentivo il bisogno, anche se probabilmente restare lucida sarebbe stata la decisione migliore che potessi prendere.
Ci ritrovammo entrambi di nuovo seduti fianco a fianco, il sapore caldo e dolce del liquore riempiva la bocca e scendeva in gola, lo sentivo forte sulla lingua, rinfrancante, non avevo idea di cosa stessimo bevendo ma quello che importava era che mi sentissi riscaldare, stavo già meglio. L'atmosfera era pacata, confortevole.
Philip manteneva una certa distanza tra di noi, mi raccontò della sua famiglia e della sua vita, era davvero un discendente della dinastia dei Sangro, suo padre aveva voluto che crescesse non dimenticando le nobili origini e lo aveva lasciato alla direzione del gruppo finanziario di cui aveva seguito i passi sin da ragazzo, rispettando il volere del padre, anche se, mi confessò, il suo sogno era sempre stato ritirarsi tra le Fiandre e stabilirvisi. Era stanco, stanco di quella vita che non sentiva più vera, gli mancava spesso la possibilità di approfondire un'alternativa diversa, non legata al suo lavoro.
Era commovente rimanere ad ascoltarlo, quell'uomo non era poi così diverso da me, di tutto cominciava ad avere l'aspetto, tranne che di una persona malvagia che aspirasse a complicarsi la vita imprigionando una donna. Allora cosa ci facevo lì, non lo capivo, Philip aveva forse bisogno di qualcuno con cui parlare o era improvvisamente impazzito dopo anni e anni di repressione e responsabilità? Non sarebbe stato il primo, mi dicevo.
Capivo, che al quadro che mi ero fatta mancava qualche tassello, e glielo dissi, - Philip, perché mi hai portata a casa tua? Davvero per parlare? Che cosa a che fare tutto questo con me?
Philip mi sorrise con grande apertura, aveva ulteriormente riempito i nostri bicchieri quando si alzò di nuovo e spalancò l'immensa porta-finestra che dava sul giardino, la vista mozzava il fiato. La terrazza era nel pieno della fioritura, tanta meraviglia, pensai, non avrebbe mai lasciato deluse le aspettative di un ospite.
Philip mi invitò a seguirlo, la terrazza girava intorno alla casa, altre finestre si affacciavano sul ballatoio ma era impossibile capire cosa contenessero. Le tende erano tirate e scure, il tessuto sembrava spesso di modo che nessuna luce potesse trapelare dall'esterno o entrarvi, ogni cosa faceva pensare che effettivamente non c'era nessun altro in quella casa. La struttura imponente era composta di nuda roccia e attribuiva al paesaggio un'atmosfera minacciosa e malgrado tutto ne accresceva la magnificenza. - Questa casa ti rispecchia, - dissi, Philip mi sorrise con rinnovata intesa, in qualche modo quell'uomo stava riuscendo a sedurmi, non potevo negarlo. Ce ne stavamo come due vecchi amici a chiacchierare sotto la luna d'estate e mi sentivo bene, non nascondemmo le nostre reciproche confidenze, riconobbi un'inaspettata complicità tra noi, dentro di me provavo una sincera attrazione per quell'uomo, era fin troppo facile condividerne i pensieri.
- Al ristorante, subito dopo che sei entrata, - disse, - ho visto in te il mio riflesso, - continuavamo a camminare, - si notava che ti mancava qualcosa, qualcosa che ancora non stai cercando, non in modo chiaro e concreto almeno, e quando ho capito che stavi guardando nella mia direzione, probabilmente chiedendoti qualcosa sul mio conto, ho sentito che eri la persona giusta.
- La persona giusta? la persona giusta per cosa? – mi insospettii.
- La persona giusta per me.
- ...
- Non sono pazzo, Isabelle, è una sensazione definita a farmelo credere, penso che sei la donna che stavo aspettando, ma sarai tu a dirmelo, e se non lo farai o non vorrai per qualsiasi motivo, anche soltanto desiderare di capirlo, tutto finirà immediatamente ed entrambi torneremo alle nostre rispettive vite di sempre. Non potrei mai costringerti oltre questo punto, te l'ho detto, non corrisponde a ciò che desidero.
Fu allora che le sue braccia si strinsero intorno alla mia vita senza che me ne rendessi conto, non ebbi il tempo o la determinazione di emettere alcun lamento, nemmeno una debole protesta, il suo corpo aderì al mio così pienamente e in modo così perfetto e simmetrico, che la mia bocca si incollò alla sua con inevitabile trasporto. Maledissi la mia totale volubilità solo per un breve istante, sottovoce, e mi arresi alla sua volontà con sorpresa e gioia: non avevo mai desiderato qualcuno come stavo desiderando lui, nonostante fossi consapevole che sapeva raccontare favole dell'inconsistenza di un'illusione anche per la più ingenua delle donne, acconsentii e mi abbandonai tra quelle braccia energiche. Il mio corpo rispose a quel richiamo come se non avesse mai fatto altro, la mia mente smise di pensare, mi dissi che non era accaduto nulla quella sera, me ne dimenticai all'improvviso, l'arroganza, l'aggressione, la paura, il bavaglio... ero soggiogata, e persi il controllo, anzi capii che per tutta la serata non l'avevo mai avuto. In pochi attimi rimisi in gioco la mia esistenza e mi dissi che c'era davvero la possibilità che tra me e quello sconosciuto potesse accadere qualcosa, ero consenziente, nonostante non conoscessi le conseguenze del mio gesto né quale sarebbe stato il rischio, lo desideravo. Philip mi aveva cambiata, ero diventata avventata, respirai il suo odore e ritenei di potergli dare fiducia, succhiai la sua lingua così a lungo che le labbra cominciarono a farmi male, ci succhiammo a vicenda, e non c'era nessun altra cosa che avrei voluto fare oltre quella.
L'eccitazione fece sembrare possibile ogni alternativa, nonostante fosse imprudente e l'indomani apparisse incerto, cedetti a quell'abbraccio, lo avevo atteso... quando mi ritrovai improvvisamente addormentata nel grande salone dove tutto era cominciato.
Philip non era più con me, fu Pierre a informarmene, il maggiordomo, venendo ad aprire le tende non appena lo chiamai con il suo nome ad alta voce, era forse la prima volta che lo pronunciavo e mi suonò familiare.
Pierre mi offrì una colazione abbondante sulla terrazza, la giornata splendeva come non ricordavo di avere mai visto. Non riuscivo a credere di essere ancora lì e soprattutto non ricordavo cosa era accaduto quella notte. Cosa era successo tra me e Philip? Come era possibile che mi fossi addormentata? Ero molto confusa e ciononostante mi sentivo bene, molto bene, avevo fame e la solerzia gentile di Pierre si dimostrò tale, che rifiutare di accomodarmi sarebbe stata una scortesia inaccettabile. Non feci nessuna osservazione, nessuna domanda, semplicemente non dissi nulla oltre a chiedere affabilmente se il padrone avesse lasciato un messaggio per me.
Quella domanda stranamente non mi imbarazzava, anzi, mi parve naturale, d'altronde somigliava più a una preghiera che a una richiesta, e speravo di vederla presto esaudita.
Ero in casa sua e stavo a meraviglia, avevo l'impressione di essere sempre stata tra quelle mura, con il tempo fermo chissà da quando, la bellezza del giardino superiore alle promesse della sera prima, tutto era un rigoglio di piante e fiori, alcune specie non le avevo neanche mai viste, una fitta vegetazione nascondeva la direzione da cui ero arrivata, non si scorgeva alcuna strada, e immaginai di svegliarmi ogni mattina davanti a quello spettacolo finché non dovetti rimbeccarmi, un sogno prima o poi deve finire, mi blandii.
Mi servii comunque di tutto punto, pane tostato e molto caffé, senza più pensare a Philip, pregai Pierre affinché mi chiamasse un taxi, dovevo tornare in città.
Raccolsi le poche cose che avevo in giro, nell'unica stanza che avevo visto, quella che era stata il mio letto per quella notte, presi la borsa e il foulard ripensando a qualche ora prima, la sconcertante intensità con cui Philip mi aveva imbavagliata e costretta a seguirlo, non mi capacitavo.
Ringraziai Pierre ripetutamente, la sua accoglienza era stata impeccabile e glielo dissi, ma fu soltanto prima di salire in taxi che Pierre mi consegnò affettatamente una lettera, - da parte del padrone, - disse, e capii che secondo precise istruzioni aveva atteso l'ultimo momento per farmela avere, nonostante la mia evidente impazienza e il mio sgomento, aveva rispettato la volontà del padrone, e mi resi conto che se davvero fosse successo qualcosa la sera prima, Pierre non ne avrebbe fatto parola con nessuno e, ne ero certa, non mi avrebbe aiutata.
La busta risultava sigillata, perfettamente chiusa, era autografata e riportava sul retro - per Isabelle, - vergato a mano con inchiostro nero e una scrittura affilata.
Erano passate due settimane da quella notte, quando Philip mi chiamò, mi sentii elettrizzata al pensiero di rivederlo, stavo per rincontrare l'uomo che nell'attesa ero arrivata a credere di aver soltanto immaginato. Non fosse stato per la lettera che tenevo riposta in un cassetto, accanto al mio letto, Philip non era mai esistito, era stato il frutto della mia fantasia. La lettera però esisteva, e chiaramente diceva, - ci rivedremo presto - , così pensai, tutto sommato, talvolta è possibile che capiti qualcosa di veramente straordinario nella vita.
Finii allora di prepararmi e raggiunsi la Grote Markt...



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