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Racconto n° 4495
Autore: Zenzero Altri racconti di Zenzero
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In treno, una mattina
La porta è solo accostata, ho un brivido al pensiero del rischio che hai corso se qualche maleintenzionato mi avesse preceduto. Ma questa avventatezza fa parte del tuo carattere, non è sbadataggine ma lucida determinazione, se decidi di rischiare lo fai fino in fondo. Io mi illudo di darti ordini, ma sei sempre tu a decidere l'intensità dell'ubbidienza. Resto fermo lunghi istanti davanti alla porta socchiusa, assaporando l'incertezza di quello che succederà.
Poi apro eccitato.
Sei lì in piedi, costretta tra lavandino e cesso, con un accenno di sorriso sulle labbra. Non c'è traccia di vergogna nel tuo sguardo, hai questa capacità di astrarti dal luogo o forse è proprio il luogo sordido ad alimentare la tua frenesia, ancora immobile ma già tesa negli occhi di febbre.
Ruoto il chiavistello sul più sincero degli - occupato - e mi viene in mente la scritta che fai apparire sulla finestrella della chat quando sei con me, marnie è occupata potrebbe non rispondere, premessa e promessa delle tue intenzioni. Ora è uguale, se sei qui significa non solo che ti offri, ma che vuoi essere occupata, come un cesso o un territorio, con qualunque mezzo.
Non ci scambiamo una parola, non un cenno di saluto, ci fissiamo, ci studiamo, come due pugili all'inizio dell'incontro. Appoggi spalle e nuca alla parete dietro di te e sollevi impercettibilmente il mento per dare inizio alle belle ostilità. Vuoi essere domata, ma è come se mi avvertissi che non basta che io imponga la mia forza, per addomesticarti devo usare i gesti e i riti giusti. Il gioco è nelle tue mani.
Allungo una mano e inizio a sbottonarti la camicia di foggia maschile che accentua la tua femminilità felina. Gli ultimi due bottoni li lascio allacciati, tu hai gli occhi inchiodati ai miei, so che stai soppesando le mie azioni. Non subisci, promuovi o bocci. E io non ho intenzione di essere bocciato.
Afferro i lembi della camicia, li scosto, li faccio scorrere sulle spalle, li abbasso fino alla piega del gomito. Poi sfilo in parte le maniche, ti faccio voltare, unisco i tuoi gomiti alla schiena e li lego stretti con le maniche. Ti giro di nuovo.
Adoro lo sguardo fiero di chi approva con orgoglio la propria sottomissione. Con un gesto sincrono delle mani sguscio i seni dalle coppe, guardo il tuo petto indifeso, molto più eccitante così che non se ti avessi tolto il reggiseno. La tua maschera di silenzio si incrina in un breve sospiro, premio alle mie mosse. Hai capezzoli tesi che rendo più gonfi stropicciandoli tra le dita. Per quello che ho in mente devono esserti duri e svettanti. Nemmeno se avessimo concordato in precedenza le nostre azioni riusciremmo a essere così sintonici ed essenziali. Basta un'occhiata più intensa o il lento movimento di un polpastrello per esprimere la piena condivisione di quello che stiamo facendo insieme.
Stacco gli orecchini che porti ai lobi con la golosità con cui potrei staccare due acini d'uva dal grappolo. Apro le clips, ti sorrido e subito le serro sui capezzoli. Ti sfugge un lamento, la lingua fa capolino tra le labbra. Il mento si solleva a riaffermare l'orgoglio di essere guardata, soppesata, valutata, approvata, come sto facendo io.
Ti guardo e tu ti specchi nel mio sguardo: legata, denudata, torturata dai tuoi stessi gioielli, sai di apparire oscena. E l'oscenità serpeggia nei nostri volti, tradisce la voglia di accelerare i gesti.
Il tuo silenzio mi attira come una calamita.
Ti frugo sotto la gonna, scosto il bordo degli slip, ti penetro con due dita fameliche. Sei come speravo, liscia, morbida, fradicia. Non aspettavi altro che questa perentorietà delle mie dita. Mentre mi scosto appoggiandomi alla porta per guardarti intera vedo che i tuoi occhi fissano con voracità la patta che pulsa. Abbasso la cerniera, ti mostro il cazzo e tu di riflesso fletti e muovi una gamba a compasso, appoggiando un piede sulla tazza del cesso.
La gonna ti copre ma è come se vedessi la tua fica luccicare e schiudersi.
Mi avvicino, ti alzo la gonna e nell'istante in cui sto per inforcarti tu mi dici l'unica parola della giornata, - Dai! - .
Poi, su quell'ordine che ristabilisce il vero rapporto di forze, le nostre grida, gli affanni, i gemiti che lo sferragliare del treno rende muti.

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