Racconti Erotici - RossoScarlatto Community
RossoScarlatto Community
.: :.
Racconto n° 4613
Autore: Faber Altri racconti di Faber
Aggiungi preferito Aggiungi come Racconto preferito
Contatto autore: Scrivi all'Autore
 
 
Lettori OnLine
 
Romanzi online
 
Manniquin
Brehat
Rebel
Friends
Orchid Club
Menage a trois
Remember
The best
Destiny
My Story
 
 
Maggio e Ottobre

Lui la chiamava zarina, da sempre.
Dall'inizio dei loro giorni.
La chiamava così anche se la storia della giovane donna era un po' diversa da quella che quel modo di chiamarla poteva lasciare pensare, e nessuna parentela, nemmeno indiretta, la legava ai Romanov. Il fatto di chiamarla così era nato quasi per gioco, la prima volta che lei si era concessa ai suoi baci, dopo aver giocato per un giorno intero col desiderio dell'uomo, avvicinandosi e allontanandosi per saggiarlo.
Aveva marcato con quel bacio fatto tanto desiderare e dato solo al momento del commiato, mordendogli le labbra dal desiderio, i ruoli. Prima ancora che la loro coppia clandestina trovasse la luce e li portasse ad essere amanti.
Lui, ufficiale di cavalleria, in quei giorni in congedo non permanente dal servizio effettivo, avuto per le ferite ricevute nella guerra contro i villaggi ribelli della Siberia e poi contro il Giappone, e i meriti conseguiti in battaglia.
Lei, di famiglia nobile ma decaduta per i disastri delle borse europee della seconda metà del secolo precedente, educata grazie a un saggio deposito fatto dalla nonna materna e amministrato dal notaio Lutcenko di Berlino nei collegi svizzeri e poi, come si confaceva alle ragazze di ottima famiglia, a Berlino. Nessun lusso o quasi, ma le migliori scuole per una giovane nobile di antica casata, capace di parlare correttamente il francese senza alcun accento e, con gli abiti migliori, serbati con cura, capace di apparire in pubblico, fermando e catturando sguardi e sospiri. Suscitando mille domande su chi fosse e contemporaneamente mille desideri, e pensieri rapaci di matrimonio, o altro, nei giovani dell'aristocrazia russa e mitteleuropea.
Viziata nell'essere esigente, e resa difficile di gusti, e assai esigente, dalla cultura ricevuta e da un senso innato dell'ironia, assai più che dalle ricchezze che la famiglia aveva perso ben prima della sua nascita. E di cui non godeva se non nei racconti e nei ricordi di chi la circondava evocando anni di ricchezze da fiaba.
Poi, a volte succede, che i capovolgimenti non necessariamente debbano essere negativi. Alla morte di lontani parenti, sua parente a dire il vero dei due era la moglie , morta sei anni prima del marito di mal sottile, tornò a essere proprietaria, per eredità della coppia sterile e senza altri congiunti, tra i beni di famiglia, dell'antica villa di campagna e di una palazzina San Pietroburgo, proprietà di famiglia che erano divenute loro, per assi ereditari contorti e un poco pilotati dall'ingordigia e dalle astuzie di notai compiacenti, molti, molti anni prima.
La villa, la palazzina appena in collina nella capitale, e due depositi, in denaro e titoli. Uno in una banca di Zurigo, che con la guerra fu poi provvidenziale, pochi anni dopo, e uno alla filiale del Banco di Lisbona, nella capitale, che le permisero di cambiare quasi istantaneamente livello e condizioni di vita.
Non avevano avuto molto tempo per pensare.
O per rendersi conto dell'attrazione che era nata in entrambi all'istante, quando furono presentati e si trovarono da soli quel giorno, poco dopo. Lei si fece portare per la città, la giornata era ricca di un bel sole, per ore. Si annusarono parlando.
Percorsero vie del centro, passarono vicini alla costruzione gigantesca e marmorea della stazione che nascondeva il vapore dei treni e le sale e le enormi scalinate segnate dai passi di mille viaggiatori. Poi, nel parco al centro della città, sui viali tra gli alberi, e lungo il fiume stretto che lo attraversava, lei gli offrì il braccio, e lo sentì fremere mentre sfiorava quello dell'uomo con la mano nel cingerlo ad anello con il suo.
Indugiò apposta in quel contatto, aveva respinto ogni apparente precedente approccio dell'uomo al contatto dei oro corpi con maestria, e ora ne sentiva l'elettricità tesa solo sfiorandolo. Era stata una danza di sguardi, avvicinarsi e poi sfuggire arretrando, come a volergli insegnare che esisteva un posto dove stare.
E limiti e valichi che solo a lei spettava scegliere se, come e quando valicare.
Poche settimane dopo diventarono amanti.
E lui, nella confidenza dei loro corpi nudi, scivolando con la testa tra le cosce di lei, impadronendosi delle labbra gonfie del sesso della donna, con la bocca sussurrò nella fessura umida e schiusa. La chiamò sua dea, sua padrona, che era perso per lei e per l'odore di femmina che lo inebriava.
Suo amore non osò chiamarla ancora. Poi baciandola e facendosi baciare dal calore umido che tra e cosce la imperlava, la chiamò sua zarina.
Celarono per mesi e anni la loro relazione, persino il matrimonio che celebrarono, in segreto, pur senza una vera ragione. Più che per necessità, per gioco, lei nobile, figlia e nipote di principi, e lui solo soldato di origine modesta, non cadetto di famiglia, senza ricchezze né blasone, e per evitare di diventare vincolati in alcun modo nel loro modo poco comune e ortodosso di vivere la loro passione, fuori dai canoni della buona società e delle convenzioni. Anche per la natura di molti loro segreti giochi d'amore.
Lei aveva trovato negli anni della scuola, a Berlino, uno dei libri proibiti che una ragazza di nobile famiglia non avrebbe mai dovuto non solo leggere ma nemmeno conoscere. La ristampa in francese di un romanzo che suscitò scandalo da subito quando fu edito tanti anni prima, nel 1870.
La storia di Wanda von Dunajew e di come Severin divenne Gregor. L'aveva letto con foga crescente, eccitata, scoprendo un mondo che le era sconosciuto allora.
Poi aveva cercato vecchi scritti italiani, Boccaccio, Pietro Aretino e romanzi semi sconosciuti di anonimi francesi.
Ma l'eccitazione provata leggendo del donarsi di Severin alla moglie l'aveva marchiata, ed eccitata, più di qualsiasi successiva altra lettura.
Gli regalò il libro, avvolto in una sacca porpora di velluto che aveva ospitato un crocefisso quando era stata tessuta e portava i simboli della chiesa ortodossa ricamati, la seconda volta che si videro.
Alla terza lui aveva divorato il libro e lei gli si concesse per la prima volta, felice che lui non fosse fuggito dopo la lettura di ciò che tanto la eccitava.
Fu così che cominciarono a vestire da subito il loro amore di giochi e capricci che non potevano senz'altro esibire né rendere pubblici, nella società in cui si muovevano le loro giornate. E la scelta della clandestinità e del celare la legittimità della loro unione, il matrimonio tenuto segreto, seppur voluto da tutti e due, vestì ulteriormente di eccitazione e desiderio i loro giochi.

Fu alcuni anni dopo, nemmeno molti, il loro rientro dalla Turchia.
Che scoppiò la guerra.
E si incendiò l'Europa intera.
Avevano frequentato insieme i circoli menscevichi, pochi anni prima, appena prima della rivoluzione del 1905, all'inizio più per gioco che per sincera convinzione. A lei piaceva il fatto di poter indossare alle riunioni pantaloni e camicie senza collo, da mugiko, un cappello piatto a celarle i capelli e stivali da equitazione di foggia maschile, e stupire tutti quando poi, tolto il cappello rivelava la sua natura così fortemente femminile. In quelle riunioni di cospiratori si sentiva libera come poche volte in pubblico aveva potuto, in un'epoca di conformismo e convenzioni assai feroci. E poi lì erano davvero loro due, vicini, nel covo della rivoluzione, e l'illegittimità loro era di un caldo e bel colore.
Non c'era voluto molto perché la sensibilità di entrambi comunque li avvicinasse assai profondamente, al di là del loro gioco iniziale, forse persino un po' infantile, alle idee del nuovo progresso sociale. Non c'erano voluti mesi ma poche settimane, perchè scoprissero che si poteva vivere con gioia e senso di libertà e liberazione persino quel gioco pericoloso del tessere di nascosto sogni di rivoluzione.
E che il sentire dentro ideali comuni e condivisi, desse fiamme in più persino al cuore.
Lei si era innamorata del sogno del suffragio femminile, delle battaglie cominciate in altri paesi, dove le donne potevano reclamare diritti che nella Russia dei Romanov anche dopo la concessione del parlamento, erano negati di fatto a buona parte della popolazione.
Nel circolo che frequentavano, allo scoppio del conflitto mondiale, uno dei più roventi oratori era un giovane, dagli occhialini da professore e dalle chiome simili alla criniera di un leone.
Faceva Lev, cioè Leone di nome, ma probabilmente era soltanto un caso che unisse nome e criniera in un persona sola.
Non sapevano all'epoca che importanza avrebbe, quel giovane così pungente ed arguto, successivamente avuto dirigendo militarmente l'insurrezione e la rivoluzione.
Era perennemente un poco oltre alle convinzioni del segretario menscevico del circolo, parlava di qualcosa che doveva andare al di là della parvenza di democrazia stessa appena ottenuta da dieci anni soli, parlava dell'abbattimento dello zarismo, della fine delle vessazioni per gli operai e i contadini e i popoli non solo della Grande Madre ma del mondo intero.
Della fine del macello di corpi e vite che la guerra aveva scatenato, di un'unica lotta e insurrezione mondiale, tutte idee che ai due amanti erano sembrate sogni di conquiste meravigliose, degne della vita, missioni difficilissime ed epocali.
Ospitarono nella villa in campagna tre fuggiaschi bolscevichi entrati in clandestinità, e ricercati dalla polizia.
Per molti mesi.
E si tennero nella villa ben celate riunioni segrete cui parteciparono i membri del loro circolo che erano divenuti tutti tranne il segretario bolscevichi.
Bruciarono di mille passioni in quegli anni e anche la loro trovò materia di incendio ulteriore. Tutto sembrava accelerato, irrinunciabile, improcrastinabile.
Nel progettare scioperi, scrivere comunicati per i soviet delle fabbriche, ormai illegali, e nel vivere il loro amore ogni giorno con maggiore intensità e senza conoscere tra loro barriere di pudore.
Amarsi quando sembra che il mondo debba finire il giorno dopo ha di sicuro un sapore del tutto unico e particolare.
Vi furono notti in cui non accettarono il sonno fino al mattino per non perderne un minuto o un'emozione.
Altre in cui nella paura che il mondo davvero potesse finire e crollare forzarono i loro giochi fino a limiti sempre nuovi, valicandoli e superandoli poi la volta dopo.
Come se amarsi fosse una corsa, una sorta di salita, di ascensione mutua e condivisa, e un percorso infinito verso la totalità assoluta del darsi e dell'aversi.
Nulla bastava a lui per dirle la profondità di oceano del suo sentire.
Nulla bastava a lei per dirgli di quanto lo volesse, e lo volesse suo, e capisse che anche attraverso la via del dolore che gli donava, parallelo al piacere, gli permetteva di dirle quanto lui la amava e gli dicesse, lei, quanto amava lui. Lei lo legò, batté il suo corpo, le braccia di lui alte sopra la testa contro un muro.
Leccò i segni rossi sulla schiena con la lingua e poi si sedette in grembo alla sua eccitazione, sapendo che ad ogni spinta del suo ventre contro quello dell'uomo, se d'un canto lui le affondava dentro, godendone, e lei lo avvolgeva, dall'altro la schiena di lui urlava di dolore.
Si ubriacarono così senza nemmeno usare alcun alcool o alcun bicchiere.
Lei amava cavalcarlo, amava tormentargli il petto, con le dita serrare e guidare, con le unghie farlo inarcare e sentirlo come impazzire sotto di lei, e ad ogni sforzo o sollevarsi di reni, ad ogni scarto a lato imposto dal dolore sentire crescere in sé il piacere e leggere sul volto di lui lo specchio del piacere, avvicinarlo come guidandolo all'esplosione. Sapeva coglierlo.
L'istante dell'esplosione del suo amante.
Nel chiudere di lui le palpebre, nel respiro che si faceva differente, nella frenesia che lui non controllava più e lo portava a spingere in modo disperato verso l'alto, per sentirsi perso dentro di lei, un sesso solo, non più due, nemmeno nelle percezioni delle mucose.
Corsero così giorni e notti.
Mentre il mondo bruciava e loro vivevano in perenne accelerazione. Quando un giorno, era mattina presto e lui era lì per caso, quel mattino, arrivò il messo a portargli la missiva, nel suo appartamento di città, dove simulava una vita solitaria. Perché si presentasse, ufficiale di cavalleria, veterano richiamato, al battaglione mentre la guerra stava precipitando e il paese cominciava a morire per la fame e lo zar reclamava lo sforzo di tutta la nazione fino all'ultimo contadino a all'ultimo soldato. Tutto finiva indirizzato allo sforzo bellico, uomini, cavalli, animali e cibo. Acciaio e tessuti.
L'intero paese era in ginocchio e alla fame.
Al pari di mezza Europa.
Ogni settimana la polizia segreta arrestava bolscevichi o presunti tali e ogni atto repressivo, carcere e esecuzione comminato loro, veniva enfatizzato dai giornali schierati a favore della guerra per scoraggiare gli emuli dei rivoluzionari.
Quando giunse la missiva che lo richiamava si trovarono nella casa di lei nella capitale.
Discussero, per pochi giorni, fecero molte volte l'amore, con sempre maggior rabbia, furore e disperazione. Come se dovessero accumulare qualcosa senza farsene scappare nemmeno una goccia, una briciola, una piccolissima sensazione.
Poi presero, insieme, una decisione.
Di notte scapparono nella villa in campagna. Del loro matrimonio rimasto segreto si fecero scudo, nessuno lo avrebbe cercato lì e non sarebbe stato il primo bolscevico a diventare clandestino per non essere carne da cannone. Lei lo nascose nella cantina sottostante le stalle, dove avevano ospitato i tre fuggitivi l'anno prima.
Sopra Princess e Katrina, le due puledre a fare la guardia, non sopra l'assito della cantina, il rumore avrebbe potuto tradire la presenza della botola, ma poco distante, nel box. Al suolo paglia e terra, la botola era invisibile anche di giorno.
Lì lui trascorse alcune settimane senza mai uscirne, all'inizio.
Lei lo raggiungeva col primo buio, apriva la botola e scendeva la scala. Lui appena sentiva il rumore dei passi sopra il soffitto in legno e la polvere cadeva su di lui sotto, spegneva la luce a petrolio che usava per leggere, scrivere e vederci, giorno e notte. Era l'unico momento, lo spegnimento della lampada in cui l'odore del petrolio spento ma caldo si rivela più secco e forte e avrebbe potuto tradirlo. Imparò a bagnarsi le dita di acqua o con molta saliva, e serrare lo stoppino rovente prima di richiudere la lampada per celarne l'odore di petrolio. In ogni caso altre due lampade ardevano notte e giorno sopra la cella sotterranea per coprire le tracce di quella sottostante che lui usava.
Lei poi, scesa dalla ripida scala, aiutata e sostenuta dalle mani di lui che si infilavano golose sotto la gonna o sostenevano il culo con le mani se indossava pantaloni, gli leccava le dita su cui il fuoco ripetuto dopo pochi giorni aveva formato le piccole piaghe che con creme e pulizia lui aveva già trasformate in cicatrici callose, ruvidi e forti. Stimmate di martire clandestino, diceva lui e rideva.
Avevano trasformato, per rendere meno terribile e carica di paura l'attesa del tempo che passava in quella cella, il loro tempo in mille giochi. Lui era suo prigioniero, lì sotto. E loro esorcizzavano ogni paura, lei fingendo di essere l'inquisitore che lo interrogava e lui il prigioniero nelle mani avide e ingorde di lui della donna.
Altre volte lei gli ordinava il massimo silenzio, pena il poter essere scoperti, era quello l'inizio del gioco.
E, nudo lui, non necessariamente sempre nuda lei, lo tormentava, piccole torture con le mani che arrivavano ovunque, penetravano, aprivano, giocavano, stringevano o facevano mille giochi anche il solletico o la scrittura con le unghie di interminabili lettere d'amore sulla sua pelle.
Per letto aveva fatto portare un vecchio sommier largo quasi una piazza e mezzo, per coperte tessuti di lana e due pelli di agnello. In quel letto, grande appena poco più di quello che avrebbe usato un uomo solo dormivano e si amavano strettissimi.
Spesso lui, per permettere il sonno alla sua zarina e non farla cadere o non svegliarla vegliava desto, guardandola nel sonno.
Se lei si svegliava gli sorrideva vedendolo così, e gli diceva stiracchiandosi e inarcandosi la schiena, aderendo al suo corpo, provocante e provocandolo, pube contro pube, ancora a metà nel sonno - l'hai fatto ancora di guardarmi mentre dormo, confessalo... -
A volte lei scendeva anche di giorno.
Con la complicità di Piotr e della vecchia madre di lui, che la curava da anni, e che ormai era così vecchia da non poter più fare nulla in casa se non vivere. E biascicare nella bocca quasi sguarnita ormai di denti parole incomprensibili in merito ai due amanti quando li scorgeva perché dimenticavano una porta aperta e stavano giocando. Parole che tradivano il loro senso gentile e complice, nel sorriso dolce delle gengive ormai orfane di denti.

Lo presero dopo poco più di un mese.
Quando ormai la sensazione di sicurezza e di averla fatta franca lo portò a uscire giorno dopo giorno sempre più allo scoperto. E più a lungo.
O forse nemmeno questa malintesa sicurezza fu a tradirlo, quanto la sensazione fortissima che qualcosa stesse precipitando e la rivoluzione avesse bisogno anche di lui.
Lo fermarono a un posto di blocco, truppe zariste sbandate, sulla strada verso i sobborghi industriali della capitale. Vestito da civile, con le sacche del cavallo piene di stampati clandestini che chiamavano allo sciopero generale.
Voci non confermate parlavano di una insurrezione, a bordo della nave Aurora.
Correvano sottoterra, le voci, portate dal vento e dai fantasmi.
Marinai bolscevichi avevano preso possesso della nave da guerra e gettato a mare o fucilato gli ufficiali che avevano ordinato alle guardie di aprire il fuoco sugli insorti. Dicevano, le voci dei fantasmi, che le guardie avessero rivoltato le armi verso chi li aveva armati aiutando così gli insorti.
Lo catturarono a meno di mezz'ora di cavallo dalla fabbrica che comunque era entrata in sciopero anche senza i suoi stampati. Senza aspettarlo.
Una piccola pattuglia mista di fuggitivi, sei Ulani e cinque Cosacchi. Allo sbando e in attesa di rapinare ignari viaggiatori, probabilmente.
Preparano con una corda di canapa il cappio che appesero al noce che cresceva in mezzo al campo. A riconoscerlo fu l'ufficiale che comandava gli Ulani, e a nulla servì il suo negare di essere se stesso quando scoprirono gli stampati del soviet nelle sacche.
Portarono il cavallo, dopo averlo legato per i polsi dietro la schiena, e a nulla valse il suo tentativo di scappare e anche quello di battersi. Infilarono il suo collo nell'asola di corda e iniziarono a ridere. Puzzavano di alcool, probabilmente avevano cercato con l'alcool di coprire l'odore della paura per quello che nella città e in tutto il paese, nelle fabbriche e persino nelle caserme stava succedendo.
Fu uno dei cosacchi a tagliare la corda mentre già lui iniziava a scalciare l'aria dopo che l'ufficiale Ulano aveva colpito il cavallo facendolo scappare e lasciandolo appeso all'albero. E fu come un segnale. A vincere la paura, per gli altri cosacchi.
Lui cadde al suolo, ferendosi alla schiena e iniziò a tossire, vomitò bava e sangue.
Cercò di respirare, di riempire nuovamente polmoni e petto di aria. La corda ancora stretta gli rese difficile il riuscirci, sentì il costato e i polmoni dolergli in modo fortissimo quando finalmente si riaprirono e riempirono il suo petto di aria, ancora, finalmente. Aveva una larga macchia, fradicia, di urina sui pantaloni di fustagno, segno dell'inizio del soffocamento.
I ribelli cosacchi ebbero ragione in fretta dei loro compagni rimasti fedeli all'ufficiale Ulano e degli Ulani stessi. Lo sollevarono dal suolo, sciolsero finalmente il cappio che aveva segnato e lacerato, scavando pelle e carne, il collo dell'uomo, la cui camicia si riempì all'istante e segnò di sangue.
Poi lui disse dove portarlo.

Lei urlò. Subito dopo, senza nemmeno accorgersene, pianse.
Lo strinse a sé e lui nemmeno ebbe il coraggio di dirle del male che sentì nella forza di quell'abbraccio sul corpo pieno di lividi, per la caduta e il principio di soffocamento, e gli spasimi al costato che aveva avuto, violentissimi.
Lo tradì il gemito che gli sfuggì, e lei lo carezzò scusandosi, dandosi della stupida, baciandolo con una dolcezza così delicata, quasi avesse capito quanto lui in quel moneto fosse fragile e temesse anche con un bacio di poterlo rompere.
Il medico la sera stessa pulì e disinfettò le ferite del collo.
Ne cucì le lacerazioni, unì i lembi della carne e della pelle strappati dalla corda, disse che sarebbe rimasta una cicatrice molto visibile e molto netta. E che sarebbe stata tonda , un collana rossa porpora di pelle irregolare, mal celabile anche sotto il colletto persino della camicia più alta e stretta. Una specie di segno a vita di quell'appendimento.
Fu difficile per lei nella città insorta e nella vittoria bolscevica trovare Jacob, l'orafo che le aveva venduto sia le posate d'argento col monogramma che i monili in oro e argento, realizzat appositamente per lei, negli anni precedenti.
Nella bottega lui preparò così un nuovo gioiello.
Un grande anello di argento, in lega tale da non temere ossido. Una mescola alchemica disse sorridendo con aria complice alla giovane donna. Andarono insieme, lei a fargli un dono e lui a riceverlo.
Il mese dopo, quando l'oggetto fu pronto.
Tondo da avvolgere tutto il collo, preziosamente inciso, con un fermaglio e alto abbastanza da nascondere cicatrice e segni.
La fascia di metallo era bellissima, piatta e liscia dove avrebbe sfiorato la sua pelle. Proteggendolo e celando la grande cicatrice che lo deturpava e faceva volgere turbato e imbarazzato lo sguardo a chi gli stesse parlando di fronte, viso a viso, umiliandolo nel vederne rifuggirne la vista ogni volta. Era cava all'interno, la fascia.
Poi si faceva leggermente tonda ai bordi della striscia, alta circa due centimetri e piatta, e si trasformava in triangolo, col vertice a correre sollevato dalla base, di poco, tutto intorno al collo, come un monile, celando quasi perfettamente ogni traccia deturpata e rossa. All'interno della fascia, dove avrebbe battuto sulla pelle, e sulle tracce della ferita, lei aveva fatto incidere il suo nome, facendo copiare da un foglio esattamente la sua firma.
Lui si emozionò quando lei, preso il monile dalle mani dell'orafo glielo porse e gli mostrò la firma.
- Così mi avrai sempre con te quando la indossi, lo saprai tu, e solo io e te conosceremo la ferita che tu porti e io nascondo e proteggo - e lui sentì nella voce della donna un'emozione incrinarla, così simile alla propria.
Poi, inatteso, lui fece una richiesta all'orafo.
Di chiudere in modo indissolubile, saldandolo, il cerchio ricevuto in dono da lei e che ora si era portato e messo al collo. Trasformarlo da semplice monile in segno che non sarebbe stato possibile togliere o celare se non tagliandolo.
In pegno, e in simbolo, ma questo non lo disse. Non all'orafo che non era problema suo saperlo, né a lei che non aveva bisogno alcuno le venisse detto per saperlo e capirlo.
L'orafo ebbe solo un attimo di esitazione e di imbarazzo, poi gli disse che avrebbe dovuto stare fermo per evitare il rischio che lui lo bruciasse saldando il fermaglio in modo permanente. E che sarebbe costato 30 marchi tedeschi, aggiuntivi, che lui non voleva nemmeno sentirne parlare dei rubli, dopo che i bolscevichi avevano distrutto il paese, per la nuova modifica al suo lavoro.
L'uomo e la donna si guardarono negli occhi, mentre l'orafo ignaro offendeva gli insorti e il nuovo governo dei Soviet, incerti se reagire e come. Poi risero.
L'orafo Jacob saldò la collana trasformandola.
Lei cercò con le dita, sottili, infilandole nello spazio stretto, tra collo e collana, la sua firma, incisa, e la lesse sottovoce, scorrendola coi polpastrelli. Un attimo solo, prima di accostare il volto di lui al suo, guidandolo a sé, con le dita tra collo e cerchio.
Proprio solo un istante prima. Di baciarlo.


(dedicato)

Faber

Biblioteca
 
Community
Redazione RS
Biblioteca

Biblioteca

 
.: RossoScarlatto Community :.