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Racconto n° 490
Autore: GiuliaSays Altri racconti di GiuliaSays
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Quando sono sola
"E' un pò come dimenticarsi di chi si è. O forse proprio l'opposto: possedere troppa coscienza di se stessi, tanto da non avere paura di toccare il fondo. E' sapere che oltre al proprio lato positivo, alla propria luce, c'è anche una parte di ombra che ci appartiene e ci plasma: dare sfogo a questo immenso limite significa raggiungere livelli di libertà mai pensati..."
Quando sono sola con me stessa mi perdo in queste considerazioni. Se mi pensassi addosso un pò di meno sarei certamente una persona più serena, ma non mi accontento della superficie, devo dare a tutto un significato, trovare un senso ad ogni cosa.
Ero da Lui soltanto un paio di giorni fa. Per la prima volta ho visto il suo appartamento: freddo, con poco mobilio essenziale, senza quadri né fotografie, privo di colori, tanto ordinato da infastidire. Tre stanze troppo piccole, con le pareti angosciose e bianche, capaci di farti perdere il senso dell'orientamento anche in quei sessanta metri quadri scarsi. Pochi elementi sostanziali a distinguere l'utilizzo diverso di ogni ambiente: un angolo cottura (così pulito da dare l'impressione di non essere mai stato usato), con un tavolo rettangolare, candido come la neve, nella cucina. Un letto matrimoniale perfettamente rifatto ed una poltrona di pelle chiara nella camera da letto. Nel bagno solo la doccia, i sanitari lucenti, ed un piccolo specchio scintillante. Niente calore, nessuna imperfezione, tutto il contrario di quel nido accogliente e caotico che mi sarei immaginata per quell'uomo solare ed avvolgente. Lo seguivo mentre mi mostrava senza entusiasmo gli spazi più intimi della sua vita: guardavo i muscoli della sua schiena contrarsi ritmicamente sotto la camicia, e le sue mani aprirsi e chiudersi in un pugno ad ogni passo. Qualcosa non andava, i pezzi del puzzle non coincidevano...
E poi capii. L'evidenza mi si presentò davanti con una chiarezza devastante: anche Lui era vuoto e desolato come quel posto. Un frutto profumato, pieno di promesse allettanti, ma guasto all'interno.
Una goccia di sudore mi stava imperlando la fronte, e un senso di inquietudine si diffondeva nelle gambe. Niente panico, ben inteso. Solo un tenue allarme interiore, mentre continuavo imperterrita a sorridergli.
Si voltò all'improvviso e mi rispose a fior di labbra con un ghigno improvvisamente astuto e spietato. Continuavo a fissarlo, non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo volto, sentivo il cuore accelerare in una corsa impazzita. Non si fa mai l'abitudine al disinganno e all'amarezza... Il mio istinto avrebbe voluto farmi urlare davanti all'ennesimo uomo arido che mi chiedeva con gli occhi più di quanto fossi disposta a concedere, ma restai zitta.
La certezza di essersi affacciati sull'orlo dell'abisso fa male: il primo conato di vomito mi colse di sorpresa, facendomi vacillare. Mi svuotai senza rendermene conto, sul pavimento e sulle mie scarpe nuove. Finalmente un pò di disordine, pensai. Mi venne incontro a passi veloci e mi prese il viso tra le mani:

-"Puttana! Guarda cosa hai combinato!"-

Mi strattonò la testa afferrandomi per i capelli, così forte che gli occhi mi si riempirono di lacrime. Giusto il tempo di un gemito, e il pavimento cominciò a venirmi incontro velocemente, troppo velocemente... L'impatto con il suolo fu doloroso, e vomitai di nuovo, rannicchiata per terra come una bambina, tossendo ed ingoiando il mio stesso rigurgito.
Non mi misi a piangere, non cercai di fuggire. Tutti i miei sensi erano all'erta, i nervi contratti in uno spasmo acuto, percepivo ogni cosa attorno a me amplificata all'infinito: il ticchettio del mio orologio mi rimbombava nelle orecchie e il sangue non aveva mai pulsato con tanta forza nelle mie vene.

-"Cosa devo fare con te, piccola troia? Rispondi!"-

Lo guardavo dal basso, con tutto il viso sporco della roba che avevo rigettato, con il naso pregno di quell'odore acido e disgustoso. Continuava a sorridermi con una smorfia, mentre la sua mano stava accarezzando attraverso la stoffa l'evidente erezione che aveva tra le gambe. Mi sollevai piano, fino a ritrovarmi gattoni ai suoi piedi. Si slacciò la patta dei pantaloni, mi mise una mano dietro al collo e mi attirò a sé con violenza. Non avevo voglia di succhiare, non avevo alcuna intenzione di aprire la bocca ed ingoiare il cazzo di quel bastardo! Lui cercava di forzare le mie labbra spingendo tra esse la punta congestionata del suo pene, con una determinazione tanto ostinata quanto inutile: l'unico risultato era quello di provocarmi rumorose contrazioni allo stomaco, segno di un altro conato imminente.
La mia resistenza lo stava eccitando sempre più: il volume dell'attrezzo che avevo davanti agli occhi era visibilmente aumentato, la punta era gonfia e paonazza.
Mi tappò il naso stringendolo tra due dita. La partita era persa, e ne ero consapevole, ma passarono diverse decine di secondi prima della mia resa. Aprii le labbra annaspando alla ricerca di aria, e in un attimo ebbi la bocca piena di lui. Spingeva alla ricerca della mia gola, tastando la mia lingua ed il mio palato, cozzando contro le guance ed i denti.

-"Se mi mordi ti ammazzo."-

L'istinto del sesso ebbe la meglio: succhiai piano, con convinzione, concentrata ad assaporare le prime gocce di nettare che fuoriuscivano da quella carne calda.
Come un animale addomesticato, mi abituai presto a quel sapore e a quella consistenza: facevano parte di me, del mio modo di essere più profondo. Un liquido dolce che mi piaceva bere, nonostante la paura e la violenza. Ma Lui non mi concesse la tranquillità dell'abbandono. Uscì dalla mia bocca, mi afferrò per le braccia e mi trascinò in cucina. Riuscii a divincolarmi e a rimettermi in piedi.
Eravamo occhi negli occhi. Potevo scorgere il pozzo nero che stava dietro alle sue pupille dilatate, ed insieme tutta la solitudine di un uomo che si era perso, che si stava facendo ingoiare da un deserto più grande di lui.
Mi spogliai. Non è lo spirito di conservazione che ci salva, ma la comprensione del dolore altrui. Tolsi con lentezza ogni indumento, facendo cadere tutto a terra senza badarci, senza staccarmi da quello sguardo vuoto. Ero completamente nuda ed esposta, ma Lui lo era ancora di più, nonostante i suoi vestiti fossero ancora al loro posto.
Aprì un cassetto e prese un coltello. Appoggiò la lama fredda sul mio seno, premendo forte. Mi tagliò pelle, facendomi sanguinare. Per alcuni minuti continuò così, infliggendomi ferite dolorosissime ma superficiali su tutto il busto, sulle braccia e sulle gambe. Ero piena del mio sangue, ed ogni angolo della mia pelle bruciava da impazzire, eppure non abbandonai neanche per un istante quegli occhi vacui che mi infliggevano tanta sofferenza.
Si fermò in ginocchio, all'altezza del mio pube. Appoggiò la lama di piatto sul mio clitoride, dopo aver scostato con le dita le labbra carnose.... E cominciò a piangere.
Dapprima un pianto sommesso, privo di lacrime. Poi un fiume copioso, che mi inondava le cosce. Lanciò il coltello lontano, in un angolo della stanza, e si aggrappò a me con la forza di un naufrago, gridando la sua disperazione, sussultando contro il mio bacino. I suoi lamenti crescevano con l'intensità dei singhiozzi, mentre io gli accarezzavo piano i capelli e lo stringevo dolcemente a me, come una madre che culla il suo bambino. Lo consolavo, lo perdonavo, lo trattenevo contro il mio corpo sanguinante, aderendo con ogni centimetro del mio pube al suo volto sconvolto.
Provare piacere in una circostanza simile è da perversi. Eppure l'orgasmo che mi sconvolse mi spettava di diritto.

"Non è questione di autodistruzione, di disamore. E' avere il coraggio di accogliere il marcio che ognuno ha dentro di sé. E' non aver paura di essere dei mostri. E' la libertà di scegliersi da soli i piccoli compromessi e le grandi immoralità...."
Quando sono sola con me stessa mi perdo in queste considerazioni. Quando solo sola, mi perdo.

GiuliaSays

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