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Racconto n° 5069
Autore: Eva Blu Altri racconti di Eva Blu
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Ballerine
Comprai le mie prime ballerine in un paese lontano 100 chilometri da casa mia, ci andai con mille sotterfugi, entrai nel negozio tra mille imbarazzi e alla commessa che, materna e gentile, mi fece provare in un angolo defilato almeno sette paia diversi di scarpe, diedi mille spiegazioni, che dovevo fare una recita, che anzi dovevo partecipare a un corso di recitazione e dunque indossavo i collant per questo motivo, che la mia parte richiedeva assolutamente quel tipo di calzature e lei mi guardava proprio comprensiva e dolce, mi osservava senza capire e ancora mi faceva provare un altro paio, dicendo che di alcuni modelli molto alla moda non c'era la mia misura (- Hai un piedino un po' grande, sorrideva, ma di certo senza alludere) però in ogni caso mi avrebbe consegnato le mie ballerine e in effetti alla fine ci riuscimmo, le trovammo, un paio blu estive e un paio nere invernali, entrambe ottime per l'anomalo autunno caldo di quell'anno, lei mi accompagnò alla cassa e mi passò tenera una mano tra i lunghi capelli tenuti in ordine dal cerchietto, mi fece una carezza e prima di affidarmi alla sua collega alla quale avrei dovuto pagare, mi sussurrò delicatamente:
- Non ho capito perché eri così ansiosa e imbarazzata, piccola. Sii te stessa, sempre.

Era una donna bella, fresca e bionda, gli occhi chiari velati da un po' di tristezza, molto giovanile e materna, disposta ad ascoltare come forse non ne avevo mai incontrate. Nell'uscire da lì col mio bel sacchetto e le due scatole contenenti le mie stupende e nuovissime scarpe, la cercai con lo sguardo per mandarle un bacio, ma lei ascoltava per mestiere, aveva già un'altra cliente e non fece più caso a me. Incrociai uno specchio a figura intera, mi guardai, mi sorrisi. Ebbi una terribile voglia di indossare subito le mie ballerine, ma dovevo tornare a casa e non potevo, proprio non potevo metterle.
No, proprio no.

Sull'autobus crollai, mille pensieri e incubi mi si affollarono nella testa, che diventò pesante e trovò una valvola di sfogo in un sonno agitato, confuso come la mia vita e come me, che caracollavo tra il finestrino, il poggiatesta e il bracciolo, in posizioni impossibili, fino a quando non mi resi conto che stavo forse infastidendo qualcuno, perché mi risvegliai con una specie di carezza, energica, risoluta ma pur sempre garbata: una carezza, appunto.
- Scusami, ti ho disturbata.
Era un tipo moro, giovane, oltre i 30 ma sicuramente meno di 40 anni, abbronzato, occhi scuri, tutto sommato belloccio, sebbene un po' sovrappeso.
- Parla con me?
Sorrise. Nulla da dire, sorridendo era proprio bono.
- E con chi dovrei parlare? Eri tu che mi finivi addosso, per un po' ti ho sorretta, ma poi ti ho dovuta spostare. Mi dispiace di averti svegliata.
Disturbata, sorretta, svegliata... Ma parlava con me, era certo.
- Mi scusi lei - dissi rimettendomi a sedere in posizione eretta, stropicciandomi gli occhi e poi facendo una domanda, tanto per dire qualcosa: - Che ore sono?
- Le sette e mezza.
Un tuffo al cuore.
- Allora siamo già passati dalla città...
- Sì, siamo due paesi oltre.
- Mannaggia... E ora come faccio? Non ci sono più autobus per tornare indietro!
Mi guardò smarrito e sinceramente dispiaciuto, abbozzò qualcosa, della serie fatti venire a prendere, in fondo non è lontano, ma non poteva sapere, non doveva sapere che nessuno dei miei sapeva di quel mio pomeriggio trascorso in un paese lontano dal mio e che nessuno avrebbe dovuto saperlo nemmeno dopo, perché prima di tornare a casa le ballerine le avrei lasciate nel mio rifugio, l'appartamento di zia Bina, novantenne e un po' rimbambita, dove tenevo il mio guardaroba privatissimo, dentro cassetti in cui chiudevo a tripla mandata la libertà e la gioia di vivere che mi negavo da sempre e che da sempre mi venivano negate.
Nel sentire come mi si rivolgeva quello sconosciuto mi guardai i piedi, pensai che poi non avevo resistito e sul bus avevo indossato le ballerine appena acquistate. Forse l'equivoco nasceva da lì. Ma, se equivoco era, era già il secondo in meno di un paio d'ore: prima la commessa, poi quel tizio.
- Se vuoi ti posso ospitare per stanotte. Non ti chiedo nulla in cambio, beninteso.
Sorrise di nuovo e io ero con la testa nel pallone, per l'imprevisto ma soprattutto perché quel sorriso lo rendeva non proprio bello o bono. Lo rendeva rassicurante, paterno, dolce. Praticamente irresistibile.

- Mamma, sono io. Ho avuto un contrattempo. No, nulla di grave. E' che dobbiamo continuare a studiare fino a tardi e rimango a dormire qui da Alberto. No, tutto a posto, non ti preoccupare. Tranquilla, a domani. Ciao.
Mia madre non faceva mai molte domande. Mi fosse capitato mio padre, sarebbe stato un terzo grado, altro che, ma per fortuna erano separati, lei doveva badare al suo nuovo compagno, non aveva tempo per me e dunque era stato tutto più semplice.
- Io non mi chiamo Alberto.
- Lo so, Fabrizio, scusa, ma mia madre è apprensiva, se sapesse che sono qua, a casa di...
- ...di uno sconosciuto, lo puoi dire tranquillamente. Ma non mordo, tranquilla.
Ancora quel tranquilla.
- Allora, ti vanno due spaghetti? Hai detto che ti chiami...?
- Roberta - dissi abbassando gli occhi - mi chiamo Roberta.

Fabrizio aveva una casa piccola, essenziale. Era un pendolare, del lavoro e dell'amore: lavorava in un paese, viveva in un altro, era separato e fidanzato e la sua ragazza abitava e lavorava in un altro paese ancora. Si vedevano solo nei fine settimana. Ed era mercoledì.
- Ti stanno bene, queste scarpe. Sono nuove?
- Di zecca. Le ho comprate oggi pomeriggio. Ti piacciono?
Sbirciò il sacchetto del negozio.
- E perché così lontano?
Touché.
- Conosco la commessa, mi fanno lo sconto.
Assentì con la testa, poi prese il pigiama da sotto il cuscino, si spostò verso il soggiorno.
- No, dormo io sul divano. Mi metti in imbarazzo.
- Tranquilla. Sei mia ospite. Vai pure in bagno, fai come se fossi a casa tua.
In bagno mi chiusi dentro e mi guardai a lungo allo specchio. Non avevo ancora tolto le ballerine nuove, lui mi aveva consegnato un paio di pantofole e una camicia da notte, ma non riuscivo a cambiarmi, a indossare indumenti che dovevano essere di Renata, la sua donna. Forse anche perché Fabrizio doveva essere un tombeur de femme abituale e professionale: aveva infatti una serie di spazzolini nuovi, troppi per chi vive da solo o incontra saltuariamente una sola donna, e io ne presi uno e lo usai. Feci una doccia e dopo che ebbi finito ripresi a guardare la mia immagine nuda, riflessa dallo specchio e confusa nel vapore che lo aveva appannato. Mi toccai il viso, i capelli umidi, il naso, la bocca, le spalle, i capezzoli che gocciolavano, l'ombelico bagnato. Lo specchio rifletteva la mia figura a metà, arrivava pudicamente ai pelucci del pube, il fumo nascondeva il resto. Poi notai, proprio ai piedi del lavandino, il beauty-case lasciato lì da Renata. Era aperto e dentro c'erano trucchi di ogni tipo.

Quando riaprii la porta feci una corsa e dalla porta del bagno mi fiondai direttamente sotto il piumino che copriva le lenzuola.
- Buonanotte.
Non arrivò risposta.
- Ci sei?
Ancora nessuna risposta. Pensai che Fabrizio dormisse sul divano, nella stanza accanto. In ogni caso mi dissi che non mi aveva vista in pantofoline rosa e camicia da notte. Mi girai su di un fianco, schiacciai la testa sul cuscino. Sentivo il sapore dolciastro del rossetto sulle labbra, ebbi paura di sporcare la federa di fard, matita, eye-liner. Sì, non avevo resistito: avevo usato i trucchi di Renata.
- Ma dove sei?
Cacciai un urlo, lo sentii ridere come un matto.
- Scusa, non volevo farti paura.
Nella penombra si era disteso sul tappeto, la testa a pochi centimetri dalla mia.
Ci stava provando.
Sorrise ancora. Cazzo, non volevo dirlo, ma quel sorriso mi faceva venire una voglia matta.
Sentii che mi sbirciava, che annusava il mio odore di fard.
- Ma ti sei truccata? Le signore si struccano, prima di andare a letto...
- Le signore... - masticai in maniera appena percettibile.
- Forse pensavi di darmi il bacino della buonanotte?
Sorrisi anch'io e pensai che in fondo si fa sempre così, che era inevitabile, che lui era bello, che chissà quante ne aveva portate a casa, con la fidanzata lontana, ma quando si avvicinò lo fermai.
- Fabrizio, scusa, ma io devo dirti una cosa.
Mi mise due dita sulla bocca, se le inumidì di rossetto, se le portò alle labbra, con un gesto che trovai inebriante, più che sexy, se le baciò, poi mi fece segno di tacere.
- So già cosa mi vuoi dire.
Rimasi senza parole, il cuore cominciò a battermi forte.
Accostò le labbra alle mie, posò due o tre baci soffici sulla mia bocca, poi sentii una mano che si spingeva sotto il piumone e scendeva giù, percorrendo rapida i contorni del mio petto e del mio ventre.
- Lo so - sussurrò indovinando con le dita le forme inequivocabili del mio basso ventre - so cosa volevi dirmi.

Mi ritrovai a baciarlo furiosamente, vorticosamente, a infilargli la lingua in bocca e a succhiare la sua, prendendogli il viso tra le mani perché non fuggisse via, ma non fuggiva affatto, anzi sprofondò dentro il letto, me lo ritrovai incollato addosso ed era già nudo, ma come aveva fatto a spogliarsi così rapidamente e in un nulla a spogliare anche me, rimanendo rapito a guardarmi nuda come ero, anzi nudo come ero, e un po' mi vergognavo di quel mio piccolo sesso eccitato dai suoi baci bollenti, cercai di coprirlo tra le cosce, ma lui dolcemente me le fece piegare, volle guardarmi al naturale, poi iniziò a baciarmi e a leccarmi a precipizio le guance il mento il collo gli omeri le braccia il petto i capezzoli dritti e turgidi come mai era successo prima, il mio piccolo seno gonfiato dagli ormoni e lì fece una pausa, rallentò, mi baciò proprio sotto le mammelle, delicatamente e lambendole con la lingua, disegnandone i contorni come se mi stesse cucendo sulla carne un reggiseno di saliva, poi scese di nuovo a velocità, non risparmiando un millimetro quadrato della mia pelle con i suoi baci dolci, soffermandosi sul ventre e sull'ombelico che mai sarebbero stati fertili, che mai si sarebbero potuti riempire di un'altra vita, anche se da sempre io mi sentivo dolce e materna, e poi scese dritto sulle cosce lisce e pulite, perfettamente depilate, perché io davo al mio corpo l'aspetto che chiedeva la mia anima, indugiò con i baci sopra le ginocchia e poi torturò l'interno coscia, mordicchiò le gambe che definì magnifiche, da modella, da saltatrice in alto, da ballerina, e io pensai alle mie ballerine, determinanti per essere abbordata quel pomeriggio e adesso appisolate pigramente ai piedi del letto, una sull'altra, a godersi lo spettacolo della sua lingua che scivolava sul mio inguine, sulla peluria ben curata e rasata, della sua bocca che si riempiva della mia piccola virilità, mentre la sua, ben più consistente, mi si avvicinava sempre di più, e finimmo in una posizione che nei porno si chiama del 69 e poco dopo in quella che sempre nei porno chiamano la pecorina, con me a farmi mungere i capezzoli gonfi gonfi, come se avessero dovuto far sgorgare il latte che non avrei mai avuto, e lui dietro di me, a spingere il suo sesso poderoso dentro di me, tenendomi per le tette o per i fianchi e spaccandomi in due e ululando e facendomi mugolare come una giovenca zozzona al termine di una cavalcata intensa e feroce, perché mi venne dentro, irrorandomi le budella del suo seme caldo e abbondante e facendomi venire appresso a lui, dopo avermi menato il pistolino.

L'indomani mattina mi accompagnò al bus per la mia città. Era imbarazzato ma fu molto tenero, mi parlava sottovoce e mi temeva per un braccio.
- A me piace la donna, non solo la fica - spiegò, rispondendo a una domanda muta che gli avevo rivolto con gli occhi - e tu sei una donna a tutti gli effetti, anche se non hai la passerina.
Mi aveva regalato un vestito di Renata e poi una collana, un paio di anelli e orecchini che chissà per chi li aveva comprati e mentre me li faceva provare, a casa, mi era di nuovo saltato addosso, dopo il sesso del primo mattino e la doccia fatta insieme, perché lui non era solo irresistibile, era anche inesauribile e io insaziabile.
- Devi vestirti sempre così. Non devi avere paura di essere quella che ti senti di essere e che effettivamente sei.
Guardai il mio vestitino nuovo a mezza gamba e a fiori, con il blu che prevaleva sul giallo e sul rosa: mi stava benissimo. Sarà stato l'amore e il suo seme con cui mi aveva riempita, ma mi sentivo molto più femminile del solito. Qualcuno però, alla fermata, arricciava il naso. Non ero evidentemente così convincente come lo ero stata, senza saperlo, nel negozio di scarpe e con lui sull'autobus.
- Io l'avevo capito subito che eri... sì, insomma che eri Roberto e non Roberta, anche se portavi le ballerine. Però ho capito anche che ti sentivi Roberta e che Roberto ti è estraneo. E sempre così dovrai essere. Sincera, soprattutto con te stessa. Torna a trovarmi quando vuoi. Non nei fine settimana, però.
Mi fece l'occhiolino e mi poggiò un furtivo ma intenso bacetto sulla bocca, mi lasciò sulla lingua il sapore della sua, poi se ne andò prima che l'autobus partisse.
Salita a bordo, mentre lui spariva, guardai le mie ballerine blu, che col mio vestitino nuovo stavano proprio bene.

Eva Blu

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