Conobbi Milena dopo aver risposto al suo annuncio pubblicato in un sito storico della comunità sadomasochista italiana, ora abbandonato a se stesso e alla casualità dei convenuti; era sotto la categoria "dominatrici" ma non fu questo a spingermi a scriverle, attirò la mia attenzione per come l'annuncio lasciasse trasparire di essere stato scritto da una personalità insolita.
Il trafiletto forniva oltre alle direttive canoniche sulla natura del rapporto ricercato ( "appartenenza", "devozione", ecc.) anche un breve riferimento alle sue passioni e tutte brillavano di curiosità intellettuale.
Rispose quasi subito, questo mi stupì e ancora di più come insistesse nel voler parlare a voce, al telefono.
Voleva verificarmi, verificare che esistessi, paradossalmente lei me e non viceversa; mi confessò subito di aver ricevuto centinaia di risposte, di non averle lette tutte ma di essere stata colpita tra quelle lette proprio dalla mia perché le sembrava denotare una sincerità particolare.
La nostra conversazione ebbe come palcoscenico un pomeriggio di febbraio, in un giorno di festa, dal letto, l'udito abitato dalla sua voce sottile e dal ronzio ipnotico del deumidificatore, alla luce grigia che alle tre filtrava attraverso le tende; fu così che mi confessò di essere "sempre un po' eccitata", di trascorrere così le sue giornate, in uno stato di perenne desiderio.
Il suo aspetto era poco attraente, si fotografava spesso, però, portata dalla fermezza del suo carattere.
Alla fastidiosa burrosità ginoide della metà inferiore del corpo, glutinosa, bucherellata e sempre come fosse sul punto di colare sul pavimento, si accompagnava il petto incompatibilmente piatto e dalle costole prominenti come spunzoni d'ossa a tirare un tendone di pelle. I lineamenti androgini del volto ma non ricchi di grazia, zigomi e mento preponderanti come in un burattino ligneo medievale, sfociavano in discesa verticale in un collo striminzito spropositatamente lungo, ancora discendendo su spalle scheletrite e braccia esageratamente magre e rinsecchite. Una volta vestita, avendo nascosto il corpo, dall'ordinarietà dell'anonimato che sembrava affliggerla fuggiva coi vezzi della controcultura giovanile, vissuti con la misura avvilita di una donna ormai trentenne, responsabile e lavoratrice.
Tutto in lei sembrava proclamare quanto poco fosse stata considerata, come bramasse le attenzioni sessuali di qualcuno e non ne avesse mai, tanto da interessarsi a me che pur nella scadente mediocrità del mio aspetto e del mio gusto indulgevo in vanità e presunzione tali da ammaliarla.
Milena però possedeva un grande dono, un miracolo corporeo di cui era consapevole e da cui sapeva trarre la propria gloria: i suoi piedi.
Erano tanto belli da far sembrare l'insieme della sua figura simile ad un sacco dell'immondizia che si reggesse su due arabeschi d'oro.
Erano un prodigio di armonia della misura, colpivano l'occhio con le loro cromie rosate, di bianco opalescente e mandorla; le dita aggraziate, come carezzevoli avendo ognuna il polpastrello leggermente prominente, erano di dimensione digradante dall'alluce al minolo ma sospese tra i modelli romano (avendo illice e trillice quasi uguali) ed egizio, a far pensare fosse stato il parto incestuoso di esseri prescelti delle due stirpi a generare la rarità.
Nelle fotografie la cute pareva indulgere alla morbidezza ultraterrena, quasi quelli che si mostravano non fossero arti deputati al trasporto di un peso quotidiano ma manifestazioni carnali di un organismo che si nutrisse e riposasse senza impedimento, sfidando le leggi della fatica del regno degli uomini. Soffici e leggiadri non erano i loro unici attributi: incutevano il rispetto che la perfezione fisica pretende e riscuote in chi l'ammira, erano dato.
Una volta lessi un'intervista di Dagospia ad una modella milanese che era diventata ricca grazie all'affitto delle proprie estremità, chiedeva cento euro per lasciare quaranta minuti il cliente solo con loro, ecco, i piedi di Milena erano tanto belli che se ne avesse chiesti duecento, trecento o quattrocento per la stessa prestazione chiunque avrebbe ceduto alla tentazione; erano i piedi del diavolo tentatore e dell'angelo della redenzione al tempo stesso.
Li conobbi solo attraverso la vista e solo ritratti in fotografie, alla risoluzione approssimativa della fotocamera dello smartphone. Chissà come sarebbe stato indagarli con gli altri sensi, col tatto e l'olfatto. Forse le altre scoperte sensoriali avrebbero ridimensionato il loro sembiante metafisico, il loro splendore divino.
I suoi piedi mutavano per me in qualcosa di sempre meno corporeo, foto dopo foto attraverso le apps di messaggistica istantanea, portatori di rivelazioni, profeti nel deserto delle nostre parole mi sussurravano all'orecchio nuove verità.
Ascesi al segreto della seduzione, grazie alla complicità della lontananza, dell'irraggiungibilità, sostituivano sempre più lei, rendendo il resto del corpo un'appendice superflua dei piedi.
Le nostre conversazioni stagnavano nel niente quotidiano. Celebrando la pretesa della reciprocità, esposti con ordine, aspettando l'altro avesse finito di prima di intervenire, come in uno spettacolo teatrale ben congeniato o in un dibattito di persone educate, trovavano tempo le nostre chiacchiere vacue.
Non ci incontrammo mai, dopo qualche mese di conversazioni, i governi del mondo decisero di applicare delle norme restrittive agli spostamenti individuali a causa di una malattia infettiva. Il nostro interesse verso l'altro scemò, tutto finì com'era iniziato, dal niente e nel niente.
I piedi di Milena sono nella mia memoria qualcosa di più di una bella immagine da conservare, di un feticcio o di un tesoro ultraterreno reso materia, mi hanno insegnato molto.
Sono sfinge dei segreti del desiderio, monito che invita a non pensare troppo a se stessi.
Simone