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Racconto n° 609
Autore: Alisa Mittler Altri racconti di Alisa Mittler
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L'estate bislacca
Quest'estate bizzarra, della pioggia che non ne vuole sapere di noi, e dell'asfalto liquirizia appiccicosa, sotto piedi che sciabattano per la città.
Quest'estate bislacca, che per la prima volta in tanti anni, mi costringe a stare ad agosto nello studio, assieme a te che sei praticante qui da pochi mesi.
Ti sei subito distinta dalle altre tirocinanti che sono passate di qui.
Non sei mai stata formale, come ho sempre richiesto. Anzi, hai una nota strafottente nel modo di porgerti. Nello sguardo obliquo, quando socchiudi un attimo i tuoi occhi nocciola, un po' allungati. Nella scelta degli abiti e dei gesti.
Prediligi il bianco, lo vedo, colore fresco in questa estate assetata, ma pericoloso, perché è tutto e il suo contrario. È ingordo il bianco: si mangia gli altri colori per poi restituirli impastati e confusi.
Non ti ho mai vista in tailleur, collant, scarpe col tacco, nemmeno dopo i miei ripetuti inviti che quasi erano ordini.
Sei di poche parole tu. Quando, poche settimane fa, ti ho fatto notare che il target dello studio richiede un altro tipo di abbigliamento, hai annuito, appoggiandoti la matita sul naso, e socchiudendo appena le labbra rosa (non hai mai messo il rossetto), come fai quando vuoi sorridere.
Ma il giorno dopo, ti sei presentata con una tunica bianca, le scarpe di corda basse e i tuoi capelli corvini, lievemente ondulati raccolti in una treccia morbida.
Non so se lo fai per provocarmi, oppure per sedurmi, visto che così ribadisci la tua unicità. Oppure tutte e due le cose insieme.
Seduce ciò che è unico, strano.
Sotto quella tunica fresca di lino, non portavi il reggiseno. Lo ho notato da come i tuoi capezzoli, capocchie di spillo, stavano eretti e da come la piccola areola scura traspariva dalla stoffa. Il tuo seno, minuto, (hai una terza misura) un po' all'insù, lo definirei impertinente. Scommetto che mal sopporta ingabbiature, come te, che quando sei in casa giri nuda, complice quest'estate allegra dove pare non debba piovere mai più.
È un'idea strana, lo so, ma che dal primo istante in cui ti ho vista si è messa, sciocchina, a solleticare i miei pensieri.
Avevo il sesso gonfio quando, dopo poco, ti sei affacciata alla porta. Con una scusa, palesemente, ti sei insinuata nel mio ufficio, camminando, come sempre quasi in punta dei piedi (scommetto che, da bambina, hai studiato danza), silenziosa nelle ciabattine arabe blu cobalto, che esaltavano la pelle trasparente della tua caviglia nervosa.
Mi hai messo in imbarazzo. Avevi puntato lo sguardo proprio lì, mentre stavi in piedi, di fronte a me a parlare dell'ultima pratica da evadere, con la testa inclinata un po' verso la spalla e il ciuffo nero di capelli che ti copriva un occhio.
Non ricordo quello che dicevi, o quello che io posso aver detto, mentre sentivo il tuo sguardo bagnare il mio sesso e, a disagio, fissavo le tue mani, dalle dita sottili e bianchissime che si muovevano ritmicamente sulla cartella di pelle nera.
All'improvviso ti avrei alzato la gonna, scostato lo slip, e tormentato il clitoride con la penna. Con il dietro di una bic, arrotondato, ma della misura perfetta per stuzzicare solo quel piccolo nodo di nervi, che le labbra, ne sono sicuro, non riescono a nascondere del tutto. Allora, dandogli il ritmo, sarei stato il ministro del tuo piacere.
Ma era solo un pensiero bizzarro.
Quando mi masturbo, sai, non mi piace pensare ad una donna indistinta, ad un seno, un corpo, ma il mio piacere aumenta se penso a qualcuna conosciuta, con cui ho contatti quotidiani. Con la quale non c'entra nulla il sesso, come nulla c'entra questo caldo assurdo che ci costringe soli nello studio ad agosto. Ti sarei saltato addosso, ti avrei stuprato qui, certo.
Ma, la porta chiusa a chiave, ho estratto il membro turgido, ho tirato fuori il cazzo duro, mi verrebbe da dire, mi verrebbe da usare parole oscene ogni volta che ti parlo e tu mi rispondi con quella tua voce dai toni bassi che sembra roca.
Mi sono coccolato così, facendo uno sforzo tremendo per non venire.
Ho evitato di incontrarti per tutto il resto del pomeriggio, mentre una fata Morgana bislacca si faceva gioco della mia concentrazione. Poi alla sera, a casa, nella doccia, ho dato sfogo ai miei pensieri eccitati.
Ho voluto fare qualcosa di più per te, ho voluto spingere più in là il limite dove osare. Ti ho già spiegato che non mi piace masturbarmi pensando ad una donna senza volto con un corpo stereotipato, che potrebbe appartenere a chiunque, e nemmeno a quelle pornostar di plastica, che popolano la rete. Col tempo sono diventato esigente.
Pensavo al tuo corpo, a come lo coccoli, perché fragile, ha bisogno di attenzioni continue, lo so.
Hai una pelle chiarissima, che sfugge le insidie del sole. Una pelle bianca dove, ogni dito che la tocca lascia un'impronta, una carne pulita, dove è facile affondare e sulla quale viene voglia di sfogare gli istinti più sconci.
Se mi avvicino, sento che la tua pelle rilascia, assieme ai suoi umori, una lieve essenza di giacinto. Fiore carnoso d'inverno, il primo che spunta della neve, che mi ricorda il fresco in quest'estate dove anche il sole è sbiancato per la sete. L'emulsione al giacinto che accarezza il tuo corpo, dopo la doccia, vorrei essere io, per una volta a spalmartela.
Mentre mi toccavo, sotto il getto di acqua fresca, vedevo il filo bianco di crema che, uscito dal tubetto con un suono osceno, percorreva il tuo corpo, come se un uomo avesse scaricato sul tuo ventre pienotto la sua voglia trattenuta da giorni.
Immaginavo, immaginavo... ed ho voluto ricordare questo momento scattandomi una foto con la digitale, certo che un giorno, non sapendo il come o in che modo, vincendo il senso di imbarazzo, te la avrei data.
Quest'idea mi ha lasciato una bizzarra eccitazione nei sogni e il giorno dopo, quando tu non sei venuta allo studio adducendo un malessere improvviso, avevo già i pantaloni gonfi di cazzo.
Ti ho immaginata, sempre con la tunica di lino grezzo, un po' trasparente. Avevo i pantaloni gonfi di cazzo, mi piace questa frase, e la ripeto tra me e me, pensando che, in qualche modo tu mi possa sentire. Questa volta ti guardavo da dietro, traspariva un piccolo tanga.
Sfilata la tunica, indossi solo quello, adesso. Una sottile striscia di stoffa divide il solco delle tue natiche. La sposto piano piano, con il dito indice, mentre con il medio percorro i bordi del tuo ano. Sei intatta lì, lo so.
Ti esploro lentamente, introducendo adagio la prima falange. Poi, con rabbia improvvisa, tiro la stoffa, fino a che, spezzatosi con un suono che taglia l'aria pesante, scivola lungo le tue cosce e cade a terra lasciandoti nuda.
Allora percorro con il palmo della mano la tua schiena, accarezzo le scapole, che spuntano acute, la spina dorsale, dandoti un lieve brivido. Poi scendo lungo i fianchi, che, a sorpresa, si rivelano carnosi. Hai due piccole fossette giusto all'attaccatura delle natiche. Stringo forte la carne del tuo sedere, ci affondo le dita come fosse creta da modellare, e con il palmo della mano do dei piccoli colpetti, al cui suono grossolano freme tutto il tuo corpo.
Sono vestito, mentre tu sei completamente nuda e la cosa non fa che accrescere la mia eccitazione. Estraggo solo il mio membro e inizio a farmi strada in te, dentro il tuo ano che nessuno ha mai forzato. Hai un gemito di dolore, mentre affondando, ti appoggio le labbra sul collo, mordicchio il lobo sottile del tuo orecchio, cercando di rassicurarti con le parole, mentre, da sotto, mi impongo contro ogni resistenza.
Ansimi forte e il tuo corpo mi avvolge come un guanto. Scivolo, avanti e indietro in un ritmo impeccabile, che tu non hai mai conosciuto e che, per questo, non riesci a seguire. E allora gemi e ti muovi in una danza scomposta.
Estraggo il mio membro per affondarlo con più forza, mormorandoti parole oscene che solo ad una puttana si dicono.
Ho lasciato la foto nel cassetto, lo so che la vedrai, domani, quando sarò impegnato in tribunale e tu starai tutta la mattina sola in queste stanze.
E saprai che è dedicata a te.
Ma farai finta di nulla e, come vuole lo stile dei tuoi abiti bianchi, ti muoverai con il tuo passo delicato nello studio, poi, magari, seduta proprio su questa poltrona ti alzerai la gonna e, attraverso la stoffa delle mutandine accarezzerai il tuo sesso gonfio, ma ti ricomporrai non appena farò ritorno.
E ricominceremo ad inseguire le nostre oscenità, lungo questa estate che non voglio arrivi alla fine per continuare ad immaginarti libera, mentre cammini per la tua casa, nuda.
Io vorrei essere lì, a spiarti, mentre tu mi dai tutt' intero quello che, durante il giorno mi concedi a pezzetti, piano piano, in quest'estate assurda, fortuna di meteorologi noiosi.
Un amplesso, dove sei tu colei che dà il ritmo, che lo fa durare a lungo, per succhiarne tutto il piacere e che io, malgrado, a parole, voglia concludere, spero che continui in eterno, come questa estate la più bizzarra degli ultimi trent'anni.

Alisa Mittler

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